Venerdì di Tabgha – “Facciamoci un nome”. Babele, ossia l’ambiguità della città (Omelia del primo incontro)

Introduzione

Parlare della città nella Bibbia significa affrontare un tema ambivalente; da un lato, infatti, la città è criticata in moltissimi testi biblici come luogo dove domina la ricchezza e l’idolatria, dove l’altro è reso schiavo: si pensi alla descrizione di Babilonia presente in tanti testi biblici, ma anche al modo con il quale la stessa città di Gerusalemme viene trattata in moti passi profetici. D’altra parte, la città è anche il luogo dell’incontro degli uomini tra di loro, ma più profondamente il luogo della dimora di Dio con gli uomini, e questo sia per la Gerusalemme terrestre sia per la Gerusalemme ideale, che chiude il libro dell’Apocalisse. In ogni caso tutta la predicazione apostolica passa dalle grandi città del tempo: Gerusalemme, Antiochia, Roma. La parola di Dio ha ancora molto da dire alle nostre città.

La città è rappresentazione dell’umanità tutta nella sua socialità ed è simbolo del desiderio profondo di stabilire la comunione e di tendere all’unità fra gli uomini. Luogo dei valori comuni e del riconoscimento della legittimità delle differenze, essa è anche il luogo dell’intolleranza, della violenza, del rifiuto dell’altro. È una cartina di tornasole in cui si specchiano vizi e virtù, contraddizioni e potenzialità della socialità umana. Luogo di sperimentazione della con-vivenza dei diversi sulla base di regole comuni, essa è oggi in particolare crisi: in Italia si sta delineando ora ciò che è già realtà in altre città europee, ovvero la sua dimensione multietnica, con le connesse conseguenze a livello culturale e religioso, giuridico, sociale, urbanistico…

Parlare di città oggi evoca immediatamente problemi di civiltà: la crisi ecologica e ambientale, le diseguaglianze sociali e l’emarginazione, la criminalità e le devianze. Quale spazio nelle nostre città per gli “ultimi”, quale vivibilità delle città per gli anziani soli, i senza casa, i non autosufficienti? Gli ultimi attentati parigini ci parlano della globalizzazione della paura e dell’insicurezza che trova nella città la sua espressione più manifesta. Si comprende dunque la rinascita della tentazione della città-privata, della città-chiusa circondata da recinti e telecamere, che parla di un modello di convivenza che in realtà è di non-vivenza con l’altro, di difesa dall’altro. Un modello in cui risorge la tribù in cui la forte affermazione del “noi” avviene sempre in concomitanza dell’ancora più forte discriminazione del “loro”.

È in questo quadro che si situa la responsabilità storica del credente e la sua obbedienza all’evangelo eterno: il cristiano può vivere la fede solo immergendosi nella storia e nella sua opacità, nelle sue contraddizioni, nelle sue problematiche, e mai e poi mai evadendo dalla storia che è l’ambito del manifestarsi della presenza di Dio.

 

Babele e la sua torre: un Dio che ama le differenze e non tollera il pensiero unico

Diversamente da come normalmente viene tradotto il v. 1 suona “un solo labbro e le stesse parole”. Il senso – dicono alcuni biblisti – è che l’umanità aveva un solo progetto, quello di “farsi un nome”, attraverso la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo. Ma questo progetto viene ribaltato da Dio e gli uomini si disperdono.

Il racconto è in evidente polemica con i nemici babilonesi che costruivano grandi torri-tempio a mo’ di gradoni come se attraverso quelle scale la divinità potesse scendere sulla terra e manifestarsi agli uomini. Per la Genesi il Dio di Israele non ne ha bisogno. Sarà lui stesso a scendere dove egli vuole.

Una polemica che riguarda anche l’imperialismo babilonese e l’eccesso di fiducia che gli uomini pongono nelle loro realizzazioni. E la punizione divina della dispersione dei popoli diviene una condanna della falsa unità culturale imposta dai totalitarismi e dagli imperi di sempre. Un totalitarismo che imponeva dall’alto una uniformità che diventava madre della “cultura dello scarto”. Infatti, racconta una antica tradizione giudaica, se un operaio cadeva dalle impalcature della torre non succedeva nulla. Ma se un solo mattone si rovinava, ne seguiva una severissima inchiesta. Papa Francesco nella Evangelii gaudium ha stigmatizzato il fatto che l’uomo venga valutato per ciò a cui serve e non per ciò che è. Così come ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”, espressione usata in occasione del suo primo viaggio a Lampedusa. Come se fossero tornati i tempi di Babele, dove l’uomo conta meno di un mattone e il progetto degli uomini va contro l’umanità stessa.

Dunque, quali insegnamenti da Babele?

  1. Ogni città può diventare facilmente luogo di dominio dell’uomo sull’uomo, luogo dove la diversità viene negata in nome di una uniformità imposta dall’alto: una sola città, una sola torre, un solo progetto…
  2. Malgrado l’apparenza, il racconto di Babele non finisce male. Subito dopo quel racconto viene la vocazione di Abramo (Gen 12,1-3) in cui il patriarca accetta di partire per una meta sconosciuta, per andare dove Dio lo chiama; mentre gli uomini volevano farsi un nome, è invece Dio a fare un nome ad Abramo; mentre gli uomini si trovano ad essere dispersi su tutta la terra, in Abramo saranno benedette tutte le famiglie della terra.
  3. La vera antitesi alla torre e alla città di Babele è l’episodio della Pentecoste (At 2) dove il dono dello Spirito permette all’umanità di trovare l’unità perduta. Una unità che non annulla le differenze etniche e culturali, una unità che presuppone la diversità. La Chiesa – ci ricorda la Lumen gentium – è nel mondo segno e strumento di questo progetto di comunione voluto da Dio. La solidarietà ci rende uguali; solo la fraternità ci rende uguali nel rispetto delle nostre differenze. Per questo la Chiesa deve essere accogliente e dalle porte aperte, capace di andare incontro all’uomo e ai suoi bisogni. Una chiesa che si apre a quella fraternità autentica che nasce dalla Pentecoste, a un progetto di Dio che non è imposto, ma accolto e condiviso, perchè tale progetto è l’amore stesso di Dio donato a noi dallo Spirito.

 

Che fare a Sesto per favorire questo processo di comunione

Tre capacità da affinare:

  • Quella di intercettare i bisogni (chi è capace di ascoltare?)
  • Quella di favorire processi di coordinamento (contro il virus di un “autonomismo” narcisistico e satanico)
  • Quella di relazionarci con il “pubblico” (per una autentica partecipazione all’edificazione del bene comune)

Il panorama della fragilità e dell’esclusione sociale a Sesto

  • La grave emarginazione e il nuovo modo di pensare alla povertà: povero è colui il quale vive una carenza di beni ma anche una assenza o una perdita di relazioni significative tese alla promozione e alla salvaguardia dell’integrità della persona e delle dimensioni che la costituiscono tale.
  • Una fascia sempre più larga di popolazione, a fronte di una diminuita capacità di rinuncia, manifesta una forte e rischiosa propensione al consumo del tutto insostenibile sulla base delle effettive disponibilità economiche.
  • La sindrome della «fine del mese» come «cartina al tornasole» non tanto della mancanza di mezzi economici tout court, bensì dell’incapacità di gestire la spinta al consumo. In una società in cui viene affermandosi una sorta di «cittadinanza del consumo» e l’identità si costruisce a partire dai beni posseduti, per i consumatori mancati o fortemente limitati deve essere valutata la frustrazione aggiuntiva di non potersi riconoscere pienamente cittadini.
  • Le periferie e i criteri di riqualificazione delle aree dismesse
  • Gli stranieri e il processo di autonomia (integrazione): quale identità?

Due domande previe:

Perchè ce ne dobbiamo occupare come Chiesa?

  • Perchè comunque i poveri arrivano a bussare alle nostre porte
  • Perchè anche ai poveri va annunciato il Vangelo prendendoci a cuore la loro situazione per parlare di un Dio che ha che fare anche con loro
  • Perchè abbiamo un dovere di educare alla carità tutta la comunità cristiana

 

Fino a che punto?

  • Fino a quando ogni persona non sarà riconosciuta nei suoi diritti e le comunità cristiane non avranno più bisogno di una precisa organizzazione della carità
  • Fino a che l’intera collettività senta la propria responsabilità verso gli ultimi e questo diventi il nostro “nome”, il nostro “destino”.

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