
Mancano ormai pochi giorni alla “madre di tutte le feste”, a quella festa che permette di rivivere l’evento che ci rende certi che la nostra vita non è blindata in un destino immodificabile, che nessun uomo sarà mai schiavo del suo passato, delle sue fragilità, dei suoi peccati: no, Pasqua dice che ci può essere per ciascuno di noi un ricominciamento, una nuova opportunità, una risurrezione. In questa vita ed in quella che ci attende tutti dopo la morte. Ma la Pasqua del 2017 avrà un sapore diverso da quelle degli anni passati. Sarà una Pasqua che arriverà a seguito di due eventi che non possiamo mettere troppo velocemente nel cassetto dei ricordi e delle cose fatte.
Mi riferisco anzitutto alla Via Crucis che il Card. Scola ha guidato lungo le strade della nostra città lo scorso venerdì 17 marzo, assieme alla croce che custodisce il Santo Chiodo e che lo stesso San Carlo portò nel 1576 per chiedere la guarigione dalla peste che imperversava a Milano. In quell’occasione l’arcivescovo ha invitato tutti a “battersi il petto … per lasciare che il chiodo della misericordia giunga fino al profondo del nostro cuore”. In seconda battuta ci ha detto: “Dobbiamo volerci bene, avere cura gli uni degli altri nella comunione cristiana, perdonarci e, se del caso, sopportarci a vicenda”. Infine ci ha chiesto di coltivare l’amore per Sesto e per tutte le città di questa Zona affascinante e delicata, senza coltivare nostalgie del passato, ma guardando al domani con coraggio e responsabilità.
Il secondo evento che abbiamo vissuto in questa quaresima e che parla di vita nuova è indubbiamente la visita che papa Francesco ha fatto alle terre ambrosiane lo scorso 25 marzo. Liturgicamente era il giorno dell’Annunciazione a Maria, la memoria del Mistero di un Dio che ha voluto entrare nella storia per ridarle vita, per immettere nelle sue vene sangue fresco. Mi piace leggere la visita del papa come un anticipo di Pasqua, come l’indicazione di metodo per una Chiesa sempre più fedele al suo Signore, disponibile ad uscire dai suoi cenacoli, dalle sue paure e dalle sue sicurezze, per avvicinarsi a quelle marginalità, a quei confini, a quelle frontiere abitate da uomini e donne disorientati e persi, impauriti e ripiegati sulla sterile ricerca di un benessere incapace di includere quello di chi mi sta accanto. In un’Europa sempre più stanca ed affaticata i cristiani possono e devono rappresentare una riserva di energia in grado di risollevarla e ridarle una nuova vocazione. Francesco è venuto a confermarci nella fede, a rafforzare il volto di un Dio “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). La buona notizia, l’evangelo capace di scatenare una fede attiva e gioiosa.
Nei giorni in cui scrivo queste brevi note cade la ricorrenza dei 60 anni della nascita di quel sogno – l’Europa unita – che malgrado abbia garantito decenni di assenza di guerre e un indubbio sviluppo sociale ed economico, da alcuni anni è oggetto di una violenta propaganda all’insegna dello scetticismo e del sovranismo. Rifacendomi al discorso del presidente Mattarella di fronte alle camere riunite credo possiamo condividere – se l’Unione non vuole condannarsi all’irrilevanza – la necessità di profonde riforme che portino ad una maggiore integrazione senza per questo lasciare indietro nessuno. Troppe e troppo grandi sono le sfide che nessun Paese da solo potrà affrontare: da quella del terrorismo sempre risorgente a quella del rilancio dell’economia; da quella rappresentata dal fenomeno migratorio a quella del gelo demografico. Lo stesso papa Francesco, incontrando i capi di stato dell’Unione, ha invitato a riscoprire quella solidarietà che è “il più efficace antidoto ai moderni populismi che fioriscono dall’egoismo”.
Per questo, la Pasqua del 2017 dovrà essere Pasqua di risurrezione anche per il Vecchio Continente. Contemplando le bandiere con le dodici stelle – di non nascosta origine mariana – non sarà improprio elevare, come cattolici europei, una silenziosa ma convinta preghiera affinché quell’ideale non tramonti, ma resti a lungo sull’orizzonte dei nostri popoli.
Don Roberto Davanzo
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