Non ci è lecito scappare…

Diremo il Vangelo alle persone a noi affidate, ma lo diremo con ancora più forza a noi stessi

Nei primi giorni di febbraio ho partecipato ad un corso di esercizi spirituali presso la comunità monastica di Bose. Era il primo appuntamento che segnava la riapertura dell’ospitalità dopo un lungo periodo di chiusura causato, in parte dall’emergenza pandemica, in parte dai ritmi della comunità che prevedono il mese di gennaio come dedicato alla formazione e alla revisione della vita fraterna.

La settimana in cui si sono tenuti gli esercizi è stata quella in cui – almeno sul piano mediatico – è stato dato risalto alla decisione della Santa Sede di stabilire una data improrogabile entro la quale l’ex priore Enzo Bianchi avrebbe dovuto lasciare definitivamente la comunità di Bose da lui fondata nel 1965.

Non voglio entrare minimamente nel gossip giornalistico, spesso desideroso di scandagliare morbosamente i motivi di questa lacerazione. Voglio evidenziare semmai un paradossale dato di realtà: Bose è nata ed ha vissuto la sua presenza al servizio di un difficile ma obbligatorio cammino di unità tra quanti condividono la fede cristiana. Fin dal suo sorgere, a Bose arrivarono monaci e monache provenienti non solo dal cattolicesimo, ma anche dal mondo della Riforma e da quello dell’Ortodossia. Vasta è la pubblicistica sulle tematiche ecumeniche e sempre molto ricchi i convegni di settembre su argomenti analoghi. Ebbene, non possiamo non restare colpiti che proprio questa comunità, con questa sensibilità, stia vivendo una lacerante e dolorosissima contraddizione, pagando sulla sua pelle il prezzo della divisione. Ma insieme allo stupore per quanto accaduto, dobbiamo ricavare alcune consapevolezze, utili per ogni comunità cristiana. 

La prima è che, come recitava il titolo di un libro di Enzo Bianchi di alcuni anni fa sulla vita monastica, “non siamo migliori degli altri”, cioè che non c’è nessun peccato, nessuna fragilità, nessuna meschinità da cui il mondo ecclesiale, anche quello delle comunità di consacrati, sia esente. Dunque, bando a qualsiasi presunzione o arroganza nei confronti di chi è lontano dalla fede e magari vi si è allontanato a motivo dei nostri scandali. 

La seconda consapevolezza riguarda la proibizione di scappare, cioè l’impossibilità per una comunità cristiana di farsi paralizzare dalle proprie inadempienze ed incoerenze. Anche se spesso non possiamo dire “guardate a noi”, non ci è lecito esimerci dalla responsabilità di dire il Vangelo e tutto il Vangelo, anche in quegli aspetti nei quali siamo particolarmente fragili. Lo faremo … in ginocchio, cioè mai presumendo nulla e in piena umiltà, ma lo dovremo fare. Diremo il Vangelo alle persone a noi affidate, ma lo diremo con ancora più forza a noi stessi, e il nostro peccato finirà per essere una straordinaria occasione per non smettere mai di innamorarci di Gesù e del suo messaggio di trasformazione dell’umanità.

Don Roberto Davanzo

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