
Prendere coscienza della sete di infinito che abbiamo nel cuore
Prima di entrare in Seminario ho seguito un percorso di formazione tecnica che non ha favorito uno studio, anche solo abbozzato, di Dante Alighieri e della sua opera. Fortunatamente, il settecentesimo anniversario della sua morte (1321) e la lettera di papa Francesco “Candor lucis aeternae” mi hanno aiutato ad entrare nella vicenda e nel pensiero del “sommo poeta”. Mi piace così offrire qualche riflessione anzitutto a quanti come me hanno un deficit di conoscenza, nella speranza di stimolare in loro un minimo desiderio di approfondimento e di lettura. Nella convinzione che l’opera di Dante ci rimanda alle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente e rappresenta il patrimonio di ideali e di valori che anche oggi la Chiesa e la società civile propongono come base della convivenza umana.
Nella lettera del papa, Dante viene definito “cantore del desiderio umano”, interprete della capacità dell’uomo di superare stanchezza e scoraggiamento, per puntare con determinazione alla meta ultima della vita: la visione suprema di Dio. In questo la poesia di Dante ci fa prendere provvidenzialmente coscienza della sete di infinito che alberga nel cuore di ogni uomo, specie in questa stagione nella quale la ricerca angosciata e spasmodica di salute ci fa dimenticare che abbiamo bisogno anzitutto di salvezza. In uno scritto di Dante che papa Francesco riporta, emerge questa convinzione: “Bisogna dire bene che il fine di tutto e della parte è rinnovare i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità”. Una felicità intesa sia come pienezza di vita nella storia, sia come beatitudine eterna in Dio.
Non dimentichiamo però che questo sguardo Dante lo matura nel contesto di una vita sofferta. Fu esule, pellegrino, braccato come un criminale, costretto a morire lontano dalla sua Firenze. Malgrado ciò seppe risollevare lo sguardo dalle profondità degli inferi, dalla condizione umana più degradata, per rivolgerlo alla visione stessa di Dio, diventando profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità. Aveva sperimentato la “selva oscura”, aveva smarrito “la diritta via”, ma da quello stato di depressione si risollevò. Stimolato dal grande poeta latino Virgilio, si sentì dire: “Ma tu perché ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.
Nella Divina Commedia appaiono tre figure straordinarie di donne. Maria, la Madre di Dio, Beatrice, simbolo della speranza e santa Lucia, immagine della fede. Mi soffermo solo su Maria che viene celebrata con queste parole fulminanti: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio” e contemplata come “la faccia ch’a Cristo più si somiglia”. È Maria che ha dato le sembianze umane al Verbo Incarnato e che grazie alle sue virtù diventa la stella del mattino che aiuta l’uomo ad uscire dalla selva oscura per incamminarsi verso il monte di Dio.
Il papa ha scelto come data il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione della maternità di Maria, anche perché in quel giorno – che in alcune città medievali segnava il Capodanno – prendeva simbolicamente avvio il viaggio di Dante nella “selva oscura”. Scrive il papa: “La data non è casuale: il mistero dell’Incarnazione è il vero centro ispiratore e il nucleo essenziale di tutta la “Divina Commedia”, che realizza la divinizzazione, ovvero il prodigioso scambio tra Dio che entra nella nostra storia facendosi carne, e l’umanità che è assunta in Dio, nel quale trova la felicità vera”.
Con l’auspicio che un avvicinamento seppure minimo alla vicenda umana e cristiana di questo poeta e profeta possa irrobustire il nostro camino inquieto, ma tenace di credenti, alla ricerca di un autentico riscatto, liberazione e profondo cambiamento di ogni essere umano e di tutta l’umanità.
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