La morte del bacio (Dt 34,1-12)

“Ricorda e cammina” - Il libro del Deuteronomio, storia di un popolo in cammino
4 giugno 2021 - Dedicato a chi si fida di Dio

1Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, 2tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale 3e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. 4Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: “Io la darò alla tua discendenza”. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!».
5Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore. 6Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. 7Mosè aveva centoventi anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. 8Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni, finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè.
9Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui. Gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè.
10Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia, 11per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nella terra d’Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutta la sua terra, 12e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele.

Lettura dal libro del Deuteronomio (34,1-12)

Omelia

Nell’esperienza spirituale di Mosè c’è ancora un altro elemento che lo accomuna ai Patriarchi: la sua morte avviene prima che si compia la promessa, fuori della terra di Dio (Abramo e Isacco muoiono sì in Canaan, ma come stranieri che in quella terra possiedono solo il loro sepolcro; Giacobbe e Giuseppe invece muoiono in Egitto).
Ma nel caso di Mosè questa sua morte sul monte Nebo, prima del passaggio del Giordano, realizza una precisa disposizione divina: egli può guardare la terra promessa soltanto da lontano, ma non può entrarvi. Si ritiene che questo gesto equivalga all’osservazione cui un proprietario terriero invita un possibile acquirente: senonché Mosè non è più in grado di acquistare niente e deve accontentarsi di una visione distante.
“E così Mosè, servo di JHWH, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine di JHWH” (Dt 34,5).
Come spiegare quest’ordine di Dio, in apparenza così crudele? Come possiamo credere che proprio a Mosè, il suo servitore più fedele, anzi il suo amico più caro (cf. Es 33,11), colui che ha liberato Israele dall’Egitto e lo ha guidato lungo tutto il faticoso cammino del deserto spendendo la sua vita per realizzare la promessa di Dio, proprio a lui Dio neghi di entrare nella terra sognata e per di più quando ormai è a vista d’occhio?

Perché Mosè muore prima …?

Secondo la tradizione sacerdotale elaborata nel tempo dell’esilio a Babilonia, questo avviene perché anche Mosè deve scontare il suo peccato davanti a Dio, come Aronne e ogni altro uomo: “non avete manifestato la mia santità” (Nm 27,14; cf. Nm 20,12; Dt 32,48-52). La sua morte quindi dimostra che lo stesso Mosè è stato soltanto un servo “inutile”, che può anche essere sostituito da un altro, perché il compimento dell’opera affidatagli non dipende da lui, ma da un Altro più grande di lui che manifesta così la sua santità rispetto a qualsiasi uomo. Dal canto suo, Mosè ci dà con essa un esempio estremo dell’uomo di fede che sa guardare non a se stesso ma all’opera di Dio che lo supera: la visione della terra da lontano è la garanzia che la promessa di Dio comunque si compirà, anche senza di lui, e questo gli basta.
La tradizione deuteronomistica ci dà però una spiegazione diversa, e complementare rispetto alla precedente, dell’ordine divino riguardante la sua morte. Qui infatti è a causa del popolo che Mosè non può entrare nella terra promessa: egli paga così il prezzo del peccato di tutto Israele (Dt 1,37-38; 3,25-26).
Impossibile non mettere questa spiegazione in rapporto con l’intercessione di Mosè a favore di Israele, quando egli dichiara di voler essere cancellato lui dalla storia della salvezza, purché non lo sia il suo popolo (cf. Es 32,31-32; Dt 9,14.25).
Questa è stata anche l’interpretazione rabbinica della morte di Mosè, basata sulle due preghiere che egli rivolge a Dio nel Deuteronomio, la prima per se stesso (“Fa’ che io passi al di là del Giordano”: Dt 3,25), l’altra per il popolo (“Perdona loro, non distruggere il tuo popolo”: Dt 9,25):

Dio disse: “Mosè, se tu vuoi che prevalga il ‘fa’ che io passi’, annulla il ‘perdona loro’ e se vuoi che prevalga il ‘perdona loro’, annulla il ‘fa’ che io passi”. Quando Mosè nostro maestro udì questo, disse: “Signore del mondo, perisca Mosè e mille come lui, ma non si perda un’unghia di uno solo di Israele!” (Debarim Rabbah 7,11)

Nel racconto della sua morte, Mosè viene chiamato il “servo di JHWH”, e davvero egli è qui una straordinaria figura del servo sofferente che prende su di sé la maledizione dei “molti” per la loro salvezza e la loro benedizione. La morte di Mosè è dunque gradita a Dio come la morte di un amico fedele (cf. Sal 116,15), e lo stesso commento rabbinico citato sopra interpreta la frase: “Mosè morì secondo l’ordine di JHWH” nel modo che segue: “Il Santo, benedetto egli sia, prese la sua anima con un bacio della sua bocca, come sta scritto: Mosè morì sulla bocca di JHWH”.

Il testo ebraico aggiunge ancora che fu JHWH stesso a scendere dal cielo per seppellire il suo amico, ed è questa la ragione per la quale nessuno ha mai saputo dove sia la sua tomba (Dt 34,6).
Probabilmente Mosè fu davvero sepolto, e l’indicazione è anche abbastanza precisa: “nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet Peor (v.6). È del tutto inverosimile che il più grande profeta-condottiero di Israele non sia stato sepolto con tutti gli onori e un lutto di trenta giorni, ma si era ormai perso il ricordo della sua tomba (altro segnale della distanza cronologica tra il tempo di Mosè e quello dei narratori). Ma quest’espressione, congiunta con una sepoltura di cui è autore Dio stesso, ci insegna molto di più che il semplice rinvenimento di una tomba. I maestri ebrei ci dicono che ci sono due tipi di morte: una così dura come strappare una corda a tre capi; l’altra così dolce come togliere un capello dal latte. A Mosè è toccata la morte del bacio.
Per questa sua straordinaria intimità “faccia a faccia” con Dio, che non viene meno neanche di fronte alla morte, l’elogio finale del Deuteronomio definisce Mosè come il più grande dei profeti: “non è più sorto in Israele un profeta come Mosè” (Dt 34,10). Quando si scrivono queste parole, Israele ha già conosciuto tutti i suoi maggiori profeti, da Elia fino al Deuteroisaia. In questa prospettiva, le parole di Dt 18,15: “JHWH susciterà un profeta pari a me” acquistano innegabilmente una valenza escatologica: un profeta grande come Mosè non potrà esserlo che il Profeta degli ultimi tempi (cf. Gv 1,21; 6,14 e il racconto sinottico della Trasfigurazione).
E in realtà la morte di Mosè è veramente iI vertice profetico del Deuteronomio: nel mistero di questo sacrificio per la salvezza di tutto il popolo, e di questa intimità con Dio che va oltre anche la morte rendendo introvabile (“vuota”) la sua tomba, noi possiamo già udire la buona novella del mattino della Resurrezione.

Per riassumere, tre sottolineature

Con questo racconto celebriamo la conclusione misteriosa della storia di Mosè, la morte di Mosè, e la conclusione della sua vita vissuta su due binari da tenere insieme contemporaneamente: da un lato la coscienza che quel popolo da liberare dalla schiavitù egiziana era popolo di Dio, che non era cosa sua, che non era un suo sogno, un suo delirio, una sua ambizione; dall’altra parte Mosè è l’uomo che con quel popolo ci si è coinvolto fino in fondo, che ci ha messo la faccia, che ha vissuto tutto questo non come iniziativa privata ma come obbedienza a qualcosa che gli veniva chiesto dall’alto. Allora tre semplicissime sottolineature.

  1. Prima sottolineatura: scrive il Deuteronomio che “non è sorto in Israele più un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia”, quel Dio che nessun uomo poteva vedere in volto, quel Dio – vi ricordate che nell’episodio del roveto ardente nemmeno vuol dare il suo nome, dà quella specie di nome in codice “Io sono colui che sono” – qui si dice addirittura che parlava faccia a faccia con Mosè. E questo vuol dire che Mosè aveva una intimità profonda, una frequentazione costante con questo Dio perché l’iniziativa, perché la missione non era una missione di Mosè ma la missione di Dio data a Mosè.
    Primo segreto allora è l’intimità con Jahvè, è la contemplazione come sorgente della missione, è l’essere discepoli prima di essere inviati. Mi pare che nell’esperienza cristiana si diventa capaci di sentire l’impegno a donarsi agli altri tanto quanto si diventa intimi di questo Dio che ti manda.
  2. Seconda sottolineatura: si dice, sempre alla fine del brano del Deuteronomio, che Mosè impose le mani su Giosuè. Mosè è l’uomo, è il capo, è l’educatore che sa generare una continuità; non è il capo che dice “dopo di me il diluvio, dopo di me arrangiatevi”, ma è il capo, l’educatore, il responsabile che si preoccupa di che cosa succederà dopo che lui avrà lasciato. E allora questa mi pare una intuizione geniale, una grazia da chiedere per ciascuno di noi, nelle proprie responsabilità familiari, lavorative, educative: imparare a fare il passaggio delle consegne, imparare a coltivare il carattere docile di chi fa venire la voglia ad altri di continuare sul solco tracciato, imparare a desiderare che, quando noi non avremo più quel ruolo, qualcuno lo possa portare avanti, qualcuno possa continuare a tracciare quel sentiero, a scavare quel solco.
  3. Terza sottolineatura: Mosè è un capo, Mosè è un educatore, è un politico, un responsabile capace di morire senza vedere il frutto, il risultato della sua azione. E quindi Mosè è il capo, è l’educatore capace di lasciare il campo ad altri senza pretendere di vedere i frutti della sua azione, certo che sarà il piano di Dio a progredire, a rendere feconda la sua fatica.
    Per tutte le volte che invece noi rimaniamo un po’ abbarbicati al nostro ruolo e facciamo fatica a mollarlo; per tutte le volte che ci sentiamo un po’ mortificati quando la nostra fatica non produce risultati; per tutte queste volte credo che dobbiamo invocare l’intercessione di Mosè che, specialmente nella Chiesa Ortodossa, viene considerato come Santo.
    E allora lasciatemi concludere con un pensiero grato a un grande uomo che ci ha lasciato la testimonianza vivente di che cosa vuol dire essere disposti a morire nel proprio ruolo senza vederne i risultati. Voglio pensare a Papa Benedetto XVI che da molti fu criticato per la sua scelta di fare un passo indietro, di dimettersi da Papa, perché altri potessero continuare con più energia, con più grinta nella faticosa missione dell’essere Capo della Chiesa universale. Papa Benedetto, con la sua capacità di fermarsi, di tornare indietro, di fare un passo indietro, a mio modo di vedere ci ha insegnato che cosa vuol dire essere un capo, essere un educatore e insieme essere capace di morire; e questo giustifica e fonda l’autorevolezza di ogni educatore.

Domande per la riflessione personale

  1. Assunzione di un ruolo e libertà dallo spirito padronale. Ascoltiamo quanto scrivevamo negli orientamenti pastorali all’inizio dell’anno: “… non ci è possibile ignorare la necessità di superare atteggiamenti personalistici che ci portano a ricoprire un ruolo quasi come fosse nostra proprietà. Un personalismo che, oltre a rovinare i rapporti tra le persone più vicine alla parrocchia, finisce per dare una brutta immagine a quanti non frequentano abitualmente la nostra comunità e la avvicinano solo occasionalmente”.
  2. Essere “capi” ed insieme essere capaci di “morire”. Se ho un ruolo, una responsabilità, … ho già pensato a chi potrebbe prendere il mio posto allo scadere del mio mandato?
  3. L’intimità con il Dio che ti manda: come la coltivi, quanto tempo vi dedichi? In che modo ti metti in ascolto di ciò che Lui ti chiede?

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