- Domenica scorsa abbiamo riflettuto sul mistero del male che entra nella storia della salvezza e si manifesta nel sospetto nei confronti di Dio e del suo progetto, nel preferire i nostri affari alla sua promessa. Oggi appare sulla scena la figura del patriarca Abramo cui sono dedicate la prima e la seconda lettura e che Paolo definisce “padre di tutti i credenti”, compresi quelli che non appartengono al popolo di Israele segnato nella carne dal distintivo della circoncisione. Il vangelo di domenica scorsa affermava che “molti sono i chiamati” alla festa di Dio e quel “molti” significa “tutti”, anche gli uomini che non appartengono al primo Israele, anche a coloro che non sono circoncisi. “Tutti” sono invitati ad entrare nel popolo dei credenti: la fede diventa il criterio di appartenenza, un criterio che non dipende dalla razza, dalla cultura, dall’etnia.
- Ma che cosa significa credere, avere fede, secondo la Bibbia? Così come non basta dire “Dio” senza preoccuparsi di specificare quale sia il suo volto, altrettanto non basta dire di “essere credenti”, di “avere fede” senza chiedersi se quella che chiamiamo fede corrisponda a quanto la Bibbia ci insegna. E la Bibbia ci dice anzitutto che se vogliamo parlare di fede in modo giusto dobbiamo superare la logica salariale per entrare in una logica filiale. Si tratta cioè di smettere di pensare al nostro rapporto con Dio in una prospettiva commerciale che prevede una prestazione e una ricompensa, un lavoro e uno stipendio. Già, perchè il Dio della Bibbia non è un datore di lavoro, ma un padre che ragiona nella prospettiva del dono e non della retribuzione. Un padre che ha bisogno anche del lavoro dei figli, ma solo se i figli sentono che lavorano per l’azienda di famiglia. Un padre che in amore comincia sempre per primo e che mostra la sua benevolenza all’uomo, non perchè l’uomo se lo meriti, ma perchè venga illuminato dalla scoperta di questo amore. Pensate: secondo la tradizione di Israele, quando il Signore fece irruzione nella vita di Abramo questi era un uomo finito: aveva 75 anni, senza figli, con una moglie anziana e sterile, nomade ricco, ma senza un fazzoletto di terra di sua proprietà. Una specie di zingaro benestante, ma sostanzialmente disperato. A quest’uomo senza futuro, il Dio della vita fece una promessa incredibile (una terra e una discendenza). Eppure Abramo si fidò e, malgrado non ci fosse nulla che umanamente poteva giustificare quell’atto di fede, credette “e ciò gli fu accreditato come giustizia”, Dio lo considerò giusto. Non perchè aveva fatto delle buone azioni, dei sacrifici, … ma perchè aveva creduto, si era fidato di una promessa di futuro in cui il suo contributo sarebbe stato pressochè nullo.
- Ecco allora che arriviamo al vangelo di oggi dove Gesù gioca sul simbolo della luce ma lo fa con una affermazione perentoria e impegnativa: “io sono la luce del mondo … chi segue me non cammina nelle tenebre”. Come a dire che la fede per la Bibbia, per il Nuovo testamento è fare riferimento a Gesù, conoscere Gesù, imparare a pensare come lui per arrivare – qualche volta – a vivere come lui. Una fede che non potrà mai accontentarsi di una dimensione intellettuale, come non potrà mai esaurirsi in qualche rito (circoncisione, battesimo, …). Una fede che diventa un fascio di luce in grado di sconfiggere quel disorientamento, quella confusione, quell’incertezza che spesso ci prende. Nel rito del battesimo ai papà viene consegnata una candela, un cero che loro accendono al cero pasquale, segno di Gesù morto e risorto. E amo far notare che quel lume dice certo la fragilità che la fede che si è accesa nel cuore dei bimbi battezzati, se non protetta, se non alimentata, basta un niente perchè si spenga, perchè la si perda. Ma insieme osservo che quel lume, nei giorni di buio, quando non sappiamo dove andare, dove mettere i piedi, è provvidenziale per evitare di inciampare e cadere.
- Nel Concilio c’è un bel passaggio che dice: “A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo si abbandona tutt’intero e liberamente”. Bello quel verbo “abbandonarsi” per descrivere il credere. Credere in Gesù è abbandonarsi con tutta la nostra persona e in piena libertà a lui. Non si crede a qualcosa. Si crede in qualcuno a cui ci si abbandona, di cui ci si fida, che si ama.
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