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Domenica II dopo la Dedicazione 2021
La partecipazione delle genti alla salvezza
- Abbiamo cominciato con la Dedicazione del Duomo, siamo passati dalla giornata missionaria per arrivare a quella che la liturgia chiama la domenica “della partecipazione delle genti alla salvezza”. Si tratta di un percorso decisivo se solo vogliamo entrare nel giusto orizzonte del cristianesimo. Un modo di pensare a Dio che ribalta il modo spontaneo di intendere la religione e che plasma il nostro modo di vivere e di rapportarci agli altri.
- Ma procediamo con ordine. Anzitutto mettendoci di fronte a questo Dio che viene presentato dalla parabola del Vangelo come un Dio appassionato, non gelido, esangue, senza fremiti. Un Dio immaginato come un uomo che “diede una grande cena e fece moti inviti”. Un Dio che non ama i vuoti e che dopo il rifiuto dei commensali invitati raduna poveri storpi, ciechi e zoppi, e quando si sente dire dal servo che c’è ancora posto, gli dice: “Esci ancora per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare perché la mia casa si riempia”. Come gli dicesse: “Fa’ pressione, io non sopporto i vuoti nella sala!”.
- Capite perché abbiamo celebrato la domenica del mandato missionario: non perché dobbiamo essere tanti e sconfiggere i nostri avversari, non perché ci piace l’idea di una Chiesa potente, … ma solo perché tutti devono poter sapere che se siamo stati creati, se non veniamo dal nulla, ma da una volontà benevola e amorevole, allora significa che il destino di tutti è partecipare alla grande festa che tutti ci attende alla fine della storia. Siamo missionari perché questa scoperta non possiamo tenercela solo per noi. Siamo troppo innamorati della storia per non desiderare che la vita degli uomini possa essere più bella. E sarà ancora più bella se tutti sapranno di essere destinati ad una grande festa. Prima grande scoperta.
- Seconda scoperta. Benché questo sia il sogno di Dio, se c’è una cosa che Lui non sopporta, è quella di vedere i suoi figli trattati da burattini. Al punto da riconoscerci persino il diritto di rifiutare il suo invito. Al punto da accettare il rischio che qualcuno dei suoi figli gli risponda picche. “Tutti, uno dopo l’altro cominciarono a scusarsi”. Non per impegni cattivi (un campo comprato, il matrimonio, i buoi), ma per l’incapacità di riconoscere che anche questi impegni buoni, se non li riesci ad inserire in un orizzonte grande e bello, finiscono per diventare insignificanti. L’insegnamento è inquietante: l’inferno esiste eccome ed è rappresentato dall’incapacità di legare le cose belle come il lavoro, il commercio, gli affetti familiari, … dentro il disegno di quel Dio senza il quale anche quelle cose belle non sussisterebbero. L’inferno è essere così presi dall’interesse personale, dall’interesse privato, da disattendere l’invito a un banchetto, da dare nessuna importanza all’invito a una dimensione di coralità. Nessuno mette sotto accusa la loro attenzione al campo, ai buoi, tanto meno agli affetti umani. Fanno parte della vita cui dobbiamo rispondere giorno dopo giorno. A metterli sotto accusa è l’aver privato la vita di ogni orizzonte più vasto in cui iscrivere ciò che è quotidiano, ciò che è privato. L’inferno è anticipato dall’avere cancellato ogni interesse per qualcosa che va oltre, e quindi per la coralità della cena, imbandita per la gioia comune. Domina il privato, è ignorata la gioia per qualcosa che è di tutti, per il bene di tutti. Di cui è segno la cena. Cancellata la passione di Dio per la ”grande cena”, per i “molti”. Quell’esaltazione del privato che cancella l’universalità: “Che mi importa godere con tutti? La vita me la godo da solo”. Lo sbaglio, il peccato, l’inferno è l’illusione di poter essere felici da soli.
- Nei prossimi giorni, il 4 novembre, celebreremo la giornata dell’unità nazionale e delle forze armate in cui si ricordano i caduti di tutte le guerre. Guerre che nascono dalla esaltazione del proprio interesse, dallo smarrimento di una visione globale della felicità e del benessere, da un nazionalismo egoista e miope. L’unità nazionale è un bene prezioso, ma a condizione che non diventi un idolo per giustificare l’odio nei confronti dello straniero, del nemico, del diverso. Un’ intuizione già presente nella storia dell’antico Israele. Certo, Israele era stato scelto, si era costituito come nazione, ma non doveva considerarsi come l’unico. Era stato scelto affinché la benedizione di Dio giungesse su ogni mortale, persino sulle categorie di serie b – gli eunuchi, gli stranieri (leggere Isaia). Era il primo, certo, ma non l’unico, l’esclusivo.
Paolo, ebreo fin nelle midolla, cresciuto nella logica dell’esclusione (solo noi! prima i nostri!), dopo l’incontro con Gesù capisce che ormai è iniziato un tempo nuovo nel quale anche coloro – scrive ai cristiani di Efeso che venivano tutti dal paganesimo – che erano “esclusi dalla cittadinanza di Israele, … senza speranza e senza Dio nel mondo”, ora erano entrati a far parte della famiglia dei figli di Dio. Gesù aveva abbattuto il muro della separazione. Ormai non c’era più esclusione dal momento che Dio – il padrone della festa – non avrebbe più tollerato che la sua casa non venisse riempita. - Se dunque per Dio non c’era più esclusione, a nessun credente in questo Dio sarebbe più stato lecito pensare di escludere qualcuno dalla festa della vita.
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