III Domenica di Quaresima – di Abramo

  1. È una pagina difficile quella che da sempre caratterizza la III domenica di quaresima secondo la tradizione ambrosiana. Sia per la moltitudine di tematiche che racchiude, sia perchè ci parla di un conflitto duro che, dopo aver covato sotto la cenere, esplode in modo evidente al punto che Gesù rischia di essere lapidato. Ma ciò che fa specie e un po’ scandalizza è che questo conflitto non ha per protagonisti degli atei bestemmiatori piuttosto che esponenti di un’altra religione: no, lo scontro è con persone appartenenti al mondo dell’ebraismo, il mondo in cui Gesù era cresciuto, in più – dice l’evangelista – si trattava di “giudei che avevano creduto in lui”. Lo scontro è dunque religioso e riguarda una tentazione che può toccare anche noi, oggi, e per questo ci dedichiamo tempo, preghiera e riflessione in tempo di quaresima: la tentazione di appropriarsi di Dio, della sua paternità, l’uso sbagliato della propria identità.
  1. È con ostinata fierezza che gli antagonisti di Gesù ripetono “il padre nostro è Abramo”, come a dire: “noi siamo discendenti del patriarca Abramo, che si fidò di Dio a tal punto da lasciare il suo paese verso una terra a lui sconosciuta. Malgrado la sterilità della moglie Sara credette alla promessa di diventare padre di un grande popolo e ci credette anche quando Dio gli chiese di sacrificare l’unico figlio che nel frattempo gli era nato, Isacco. Noi siamo discendenti di un uomo così – concludevano -, siamo figli del popolo di Israele che il Signore si è scelto come alleato. Altro che schiavi, come tu ci accusi di essere. Siamo un popolo libero che crede nel Signore, sempre pronto a liberarci ogni volta che qualche nemico dovesse opprimerci”.
    Ma Gesù, quasi incurante di questa ostentazione di identità, giù ad accusarli: “Voi non siete discendenti di Abramo. Siete figli del diavolo!”. Di qui il tentativo di lapidazione.
    Intuiamo che il peccato principale di quei giudei – ma in cui possiamo cadere anche noi credenti di oggi – era quello di un malinteso senso dell’identità, quello di un orgoglio superbo che li conduceva a sentirsi a posto con il Signore e dunque li poneva in una posizione arrogante e supponente. E, questo, Gesù non poteva tollerarlo, perchè non poteva sopportare che il nome del Padre suo diventasse giustificazione di un atteggiamento insopportabile e presuntuoso.
    L’identità è una cosa seria dal momento che parla delle nostre radici, di ciò che noi siamo, dei doni che in modo immeritato abbiamo ricevuto da chi ci ha preceduti e grazie ai quali siamo quelli che siamo.
    Ma dobbiamo vigilare contro la tentazione di pensare all’identità come a qualcosa che ci deresponsabilizza, quasi come ad un privilegio acquisito una volta per tutte che non ha bisogno di essere continuamente riconquistato e un po’ meritato.
    In questa stagione che ci è dato di vivere accanto a uomini e donne diversi da noi, non si deve rinunciare ad affermare la nostra identità, ma neppure assolutizzarla come esclusiva ed escludente l’altro. Almeno finchè parliamo dell’identità dei cristiani. Siamo piuttosto chiamati a metterla in gioco, a mostrarla nelle sue caratteristiche più profonde, nella sua radicale “differenza”.
  1. Ci soffermiamo su questo tema della “differenza” e ci aiuta la prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio. Contestualizziamola: Israele è ormai al termine dei lunghi anni dell’esodo, Mosè sta per morire, il popolo sta per entrare nella terra di Canaan. Mosè allora formula dei discorsi, delle omelie, a mo’ di testamento spirituale, di consigli per il futuro, ma con un occhio al passato. Israele non dovrà mai dimenticare ciò che Dio ha fatto per lui (l’identità), ma quando entrerà nella terra di Canaan troverà altri popoli, altre genti, con cui certo combatterà, ma principalmente dovrà co-abitare, convivere, integrarsi. Ed è a questo punto che questa co-abitazione diventerà impegnativa, responsabilizzante per Israele, perchè sarà lì, all’interno di questa convivenza, che dovrà far vedere ciò che lo rende un popolo differente, quali sono i frutti che scaturiscono dalle sue radici, la sua più autentica identità. Mosè esemplifica ed elenca quei comportamenti inaccettabili, tipici delle culture mediorientali del tempo: la pratica dei sacrifici umani per ingraziarsi la divinità, ma anche tutte le pratiche magiche con cui si tentava di conoscere e di dominare il futuro, l’arroganza di poter disporre della propria vita ignorando l’affidamento a Dio e alla sua Parola.
    Come a dire che guai se Israele avesse dimenticato la sua identità, ma altrettanto guai se l’avesse usata come anestetico consolatorio e non come stimolo a far vedere un modo diverso di essere uomini.
  1. Abbiamo letto che lo slogan di questa domenica recita: “rimettiamoci in gioco per una chiesa libera dalle menzogne e dalle divisioni”. E non ho potuto non avvertire la lacerazione di quanto il mondo cristiano sta vivendo in queste settimane di guerra consumata tra popolazioni orgogliose delle proprie radici cristiane. Radici declamate, ma troppo spesso incapaci di tradursi in opere coerenti (cfr. “se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo…”). Radici spesso inquinate dalle acque sporche di una dipendenza dal potere politico che va assecondato e benedetto (cfr. le parole del Patriarca della chiesa ortodossa russa che è arrivato a giustificare l’intervento armato in Ucraina per contrastare la presunta perdita dei valori cristiani a causa dell’influsso occidentale). Pensate al dramma di apparire – come chiese cristiane – così divise agli occhi dei non credenti o di quanti appartengono ad altre fedi. Per questo non smettiamo di pregare per essere liberati da ogni menzogna e divisione.

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