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Dedicazione del Duomo di Milano
- È da lunga tradizione che la terza domenica di ottobre viene dedicata a celebrare il nostro duomo nel ricordo del giorno in cui, quello splendido edificio che ancora oggi è orgoglio di tutti i milanesi, fu consacrato, “dedicato” appunto, ad essere la cattedra da cui il vescovo, successore di Ambrogio, avrebbe guidato la nostra immensa diocesi.
Celebriamo la dedicazione del Duomo per ritornare, ogni anno, sul significato del nostro essere chiesa, guidata dal Vescovo, composta da “pietre vive”, secondo questa grande immagine inventata dalla prima lettera di Pietro. Non è accettabile l’idea di una chiesa di tanti soldatini di piombo, ciechi e obbedienti, di una chiesa fatta di “clienti” che la frequentano solo per comprare qualche prestazione.
È sempre la prima lettera di Pietro che definisce i credenti in Cristo “sacerdozio santo”, per dire che seppur la chiesa è struttura gerarchica, quello che abilita a stare davanti al Signore è il sacramento del battesimo, non quello dell’ordine sacro. Diversamente da quanto accadeva nell’AT – e un po’ in tutte le religioni – dove era necessaria una organizzazione di mediazione che mettesse in contatto la divinità con gli umani: un tempio, una liturgia, dei sacrifici, una classe sacerdotale. Con Gesù tutto questo finisce: per incontrare Dio non c’è più bisogno di una religione. È il battesimo che rende capaci di “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio”, cioè a collaborare per la crescita del suo Regno nel mondo, regno di pace e di giustizia.
Col battesimo diventiamo figli di Dio, con una propria individualità, ma mai autorizzati a pensarci come battitori liberi: sempre insieme, in viaggio nel deserto della vita, come membri di una carovana nella quale ci sosteniamo e ci difendiamo reciprocamente.
- Il cuore della meditazione odierna sta nel brano di Luca che conclude il cosiddetto “discorso della pianura”, una specie di discorso programmatico che dice il nucleo dell’esperienza cristiana e che si chiude con un monito rivolto proprio ai credenti: “perché mi chiamate Signore, Signore e poi non fate ciò che dico?”.
Usando l’immagine dell’albero e dei frutti potremmo continuare dicendo che non basta dire di avere radici cristiane nella nostra cultura: bisogna mostrare che queste radici producono frutti adeguati. Non si può sbandierare le radici cristiane del mondo occidentale e poi tollerare che, malgrado queste radici, nel nostro mondo scaturiscono frutti di ingiustizia, di non rispetto della dignità delle persone, di vergognosa sproporzione tra chi sta bene e chi sta male.
“Non dimenticatevi della beneficienza e della comunione dei beni” continua la lettera agli Ebrei “perchè di tali sacrifici il Signore si compiace”. Dunque “obbedienza ai nostri capi” (ascolto devoto al magistero del papa e del vescovo, e magari qualche volta anche del parroco) e “beneficienza e comunione dei beni”: sono questi gli ingredienti per una autentica esperienza religiosa.
- Non vorrei però essere frainteso. Quello che Gesù porta con il suo messaggio non è un programma “sociale”. Gesù ha offerto una nuova idea di Dio, ma ha anche mostrato una nuova presenza di Dio. Attraverso le sue parole, i suoi gesti di bontà, i suoi miracoli, la sua stessa vita, Dio si stava facendo vivo nella storia come mai prima di allora: un Dio esigente, certo, ma anche paterno e provvidente.
Andare dietro a Gesù significava pensare a se stessi come a un figlio, malgrado limiti e peccati: “anche a me Dio vuole bene, perché mi considera suo figlio”.
È da questa scoperta che allora si giustifica l’impegno a superare l’incoerenza tra il dire e il fare.
Un impegno possibile solo a partire da Gesù, dal fissare lo sguardo su di lui – come ci insegnava la lettera agli ebrei qualche domenica fa – dal fondare la propria casa su di lui – come ci insegna il vangelo di oggi.
E fondare la vita su di lui significa “fare” quello che lui dice, lasciandoci animare dai suoi stessi sentimenti prima che agitarci in tante attività, fossero pure per gli altri e per Dio. Il “fare” che Gesù si aspetta da noi è una questione di stile prima che un elenco di azioni seppure buone, uno stile di vita capace di produrre frutti buoni.
Solo Gesù è la “pietra viva” a cui stare vicini, affinché tutto il lavorare di una vita, le relazioni coltivate, gli affetti vissuti anche nel momento della bufera non franino rendendoci tristi e disillusi.
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