I Domenica dopo la Dedicazione

Giornata del mandato missionario Discepoli, non superuomini

1. La pagina del vangelo è ambientata in un posto non casuale, la Galilea. È lì che Gesù dà l’ultimo appuntamento ai discepoli prima di tornare al Padre. E non sfugge che si tratta di quel punto della terra dove tutto era cominciato, dove la vita di quegli uomini era stata radicalmente ribaltata dall’incontro con quell’affascinante predicatore che veniva da Nazaret. 

2. Tornare in Galilea era come per due sposi ritornare al tempo del fidanzamento, al tempo della passione e del sogno, degli entusiasmi e dei progetti. Ne avevano bisogno i discepoli: intanto perché erano diventati undici e la fine drammatica di Giuda, uno di loro, non li lasciava certamente tranquilli. E poi perché ne erano successe talmente tante in quegli ultimi giorni che la confusione era davvero grande, al punto che l’evangelista Matteo non si vergogna di notare che persino di fronte a Gesù risorto “essi dubitarono”. Certo che fa specie: Gesù convoca i suoi per un discorso d’addio, per un estremo passaggio delle consegne, e loro “dubitavano”. Gesù li deve mandare, “andate” è il comando, e loro sono ancora pieni di incertezze e paure. A dire che cosa? A dire che per essere discepoli di Gesù non c’è bisogno di essere chissà chi, discepoli, non superuomini. Anzi, che la Chiesa fa meglio il suo mestiere di offrire il Vangelo a chi non lo conosce non quando si mostra arroccata sulle sue sicurezze, magari ostentate anche con un po’ di arroganza, bensì quando non si vergogna di essere dubitante, priva delle risposte a tutti i problemi, salva dalla tentazione di puntare il dito. La gente il cuore non lo apre davanti ai mostri di perfezione, ma davanti a chi dimostra il volto simpatico di chi dice: ho delle cose grandiose da raccontarti, anche se io per primo non riesco a metterle tutte in pratica, ma io te le racconto lo stesso …

Dunque, gli “undici” partirono, andarono, non perché avevano capito tutto, ma perché restava grande in loro la memoria di quell’innamoramento. Ecco allora la prima condizione perché si possa parlare di Chiesa missionaria: che i suoi membri siano degli innamorati, piuttosto che dei tristi esecutori di precetti. Perché discepoli si diventa per “fascinazione”, non per altro. Se di Gesù parliamo come un libro stampato, se gli occhi non brillano di nessun riverbero, se le parole sono di ghiaccio e monotone, come facciamo ad affascinare? O meglio, come facciamo a mostrare che noi per primi siamo degli affascinati. Due citazioni. La prima appartiene a Charles de Foucauld che scrisse: “non appena credetti che c’è un Dio, compresi che non potevo fare altro che vivere per lui”. La seconda viene dal film “Vi presento Joe Black”: «Non è quello che dici del tuo fidanzato, ma quello che non dici. Non un’ombra di trasalimento, un bisbiglio di eccitazione… L’amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi… Trova qualcuno da amare alla follia e che ti ami alla stessa maniera… La verità è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio senza innamorarsi profondamente equivale a non vivere».

3. Ma la Galilea, la regione in cui Gesù chiama i suoi per l’ultimo appuntamento, porta in sé anche un altro significato che ha a che fare con la missione di portare il Vangelo fino ai confini della terra. Già, perché la Galilea era da sempre terra di confine e dunque una terra in qualche modo di meticciato religioso e per questo disprezzata dai puri giudei (ricordate: “che cosa può venire di buono da Nazaret”?). E allora ripartire dalla Galilea può essere una bella provocazione per la Chiesa di oggi, chiamata a rendere appetibile il messaggio del vangelo a quanti magari in questi anni si sono sentiti emarginati, giudicati, guardati con insufficiente misericordia dalla Chiesa. Ripartire dalla Galilea deve significare una rinnovata consapevolezza circa la responsabilità che ci viene assegnata in questa stagione e in questa cultura sempre più meticcia, mescolata, ibrida: ad es. nei confronti degli stranieri cattolici che già abitano i nostri quartieri, ma anche nei confronti di quegli immigrati che appartengono ad altre tradizioni e che nutrono nei confronti del cristianesimo e della Chiesa pregiudizi bevuti col latte materno. Diamo ancora la parola a Charles de Foucauld:

“Con tutte le mie forze vorrei dimostrare a questi poveri fratelli smarriti che la nostra religione è tutta carità e fraternità… Conversare, dare medicinali, elemosine, ospitalità nell’accampamento, dimostrarsi fratelli, ripetere che siamo tutti fratelli in Dio e che speriamo di arrivare tutti un giorno allo stesso paradiso … Anzitutto preparare il terreno in silenzio, con la bontà, con il contatto, con il buon esempio; stabilito il contatto, farsi conoscere da loro e conoscerli; … con ciò, far cadere i pregiudizi, ottenere fiducia, acquistare autorità – e questo richiede tempo – poi, parlare in privato ai meglio disposti, con molta prudenza, a poco a poco, … in modo da dare a ciascuno quello che è capace di ricevere. Quando vedranno degli uomini più virtuosi di loro … e che sono cristiani essi saranno ormai disposti ad ammettere che forse quegli uomini non sono nell’errore, e saranno ormai pronti a chiedere a Dio la luce.”

5. La missionarietà serve anzitutto alla Chiesa. Accettare il confronto e l’incontro con chi è diverso da noi porta un beneficio anzitutto a noi. Sottrarsi a questa responsabilità, rimanere nel caldo brodo della propria conventicola dove tutti la pensano allo stesso modo e si parla lo stesso gergo … significa trasformare il cristianesimo in idolo rassicurante. Ma significherebbe far ammalare la Chiesa, far morire la fede.

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