Meditazione – Ritiro di Natale 2022

Meditazione – Ritiro di Natale 2022

Ancora in viaggio… verso il Signore che ci corre incontro

Gesù, Dio con noi

  1. A Natale noi celebriamo il desiderio di Dio di entrare in comunione con l’uomo e il mistero dell’accoglienza o del rifiuto da parte dell’uomo chiamato a diventare figlio di Dio. La manifestazione di Dio nella carne parla di due movimenti: quello di Dio che si svuota per andare verso l’uomo e quello dell’essere umano invitato ad accogliere la vita di Dio. Il Signore si è fatto povero per arricchirci – se lo vogliamo – con la sua povertà. Ma perché questo incontro avvenga bisogna essere in due. Una lunga tradizione spirituale sostiene che serve a poco che Cristo sia nato una volta a Betlemme, se poi non nasce in noi attraverso la fede, cioè se non ci fa rinascere, se non cambia la nostra vita.
  1. Quest’anno mediteremo sull’incarnazione più che a partire dai vangeli dell’infanzia, dall’intera storia della salvezza che parla di questo desiderio di Dio di dimorare con la creatura umana. Desiderio espresso dalla parola ebraica shekinà che indica la presenza di Dio nel venire ad abitare in mezzo agli uomini. Interessante dunque guardare al dipanarsi lungo la storia del desiderio di Dio di comunicarsi all’uomo. La storia della salvezza che cos’è se non questo progressivo comunicarsi di Dio, fino all’immagine dell’Apocalisse, dello Sposo che incontra la sua sposa nella Gerusalemme celeste, affinchè Dio sia “tutto in tutti”.
  1. Partiamo da tre versetti evangelici che evocano il mistero dell’incarnazione senza peraltro descriverlo. 
    Lc 1,35: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio …”
    Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità …”
    Mt 1,22: “Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta …”

    Questi versetti rimandano alle Scritture che in Gesù si compiono. Le Scritture sono la premessa necessaria senza le quali l’incarnazione finisce per essere un mito sospeso per aria. Le Scritture ci dicono che l’incarnazione è evento preparato nei secoli. Affermare la novità assoluta del cristianesimo rischia di faci perdere le nostre radici. L’evento si colloca nella storia: non ha fermato la storia. Gesù è rimasto tra noi una trentina d’anni, ma poi la storia è continuata anche senza di lui. Il vangelo dice che “è bene per voi che me ne vada …”. Ma se Gesù fosse rimasto, egli avrebbe ribaltato le leggi della vita e avrebbe condizionato la nostra libertà. Di fronte al mistero dell’incarnazione dobbiamo coglierlo nella sua interezza. È entrato nella storia, certo, e colui che ci è stato dato da Maria è lo stesso Signore crocifisso e risorto che rimane con noi fino alla fine del mondo. È venuto tra noi, ma poi ci ha lasciati alla nostra storia, promettendoci di rimanere con noi in un’altra forma. E assicurandoci al contempo che la sua venuta nella carne non era passata invano, aveva lasciato un segno definitivo ed indelebile. Un segno che va accolto nella fede, che non si impone. La nostra condizione di credenti in Gesù non è molto diversa rispetto a quella dei credenti di Israele che invocavano ed invocano Dio perché manifesti il suo desiderio di porre la sua tenda in mezzo a noi. Non siamo così distanti dalla condizione dei credenti di tutte le religioni che cercano con sincerità la presenza di Dio, andando come a tentoni … L’evento dell’incarnazione ci chiama in causa come credenti che sanno riconoscere questa presenza, qui ed ora, attendendola in forme sempre rinnovate. 
  1. Ma che cosa può favorire o ostacolare il nostro dimorare con lui e in lui? Mettiamoci in ascolto delle Scritture della tradizione ebraico-cristiana. Dio da sempre desiderava entrare in “comunicazione con …”. La stessa creazione è una autolimitazione di sé. Per una corrente spirituale ebraica, nel creare Dio si ritrae (tzim-tzum). Nel suo essere infinito si limita per dare spazio alla realtà finita che vuole creare. Scrive il poeta Hoelderlin “Dio ha creato il mondo come il mare ha generato i continenti: ritirandosi”.
    In Gen 1-2 leggiamo: Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto”. Per i rabbini Dio completa la creazione ponendosi un limite. “Shabbat” non significa tanto riposare, ma cessare, astenersi. Creare comporta una cessazione. Senza questo ritirarsi del creatore la creazione non sarebbe compiuta. 
    Smettendo di operare Dio pone un limite alla sua potenza creatrice e dimostra di essere più forte della propria forza. Inoltre, Dio manifesta che non è sua intenzione “riempire tutto” e per questo delega il proprio potere agli esseri creati. Apre definitivamente a ciò che non è lui, uno spazio dal quale Dio si assenta. La creazione si compie nell’autonomia del mondo. “L’amore non può non volere che quel che crea si crei da se stesso” (Varillon). Dio si ritrae e così dimostra la sua identità, il suo mistero profondo. Dio si è nascosto perché si vedesse il mondo. Come nell’esperienza genitoriale. Premessa necessaria per qualunque parola sensata sul Dio che si manifesta. Il farsi presente presuppone un suo ritrarsi: la sua presenza è sempre elusiva, nascosta, discreta. E questo Dio lo fa per custodire la libertà di coloro ai quali si rivela: mai come un oggetto evidente e sul quale mettere le mani. Per questo Dio preferisce il linguaggio delle parole, piuttosto che quello delle immagini: si rivela senza mai imporsi, si mostra ed insieme si nasconde.
  1. Nella Scrittura troviamo spesso affermazioni antitetiche su Dio. È spesso ripetuto che “i cieli e la terra sono pieni della sua gloria”. Ma il dato primario è che “Dio è l’altissimo, il santo, il separato, …”. “Dio abita i cieli”: l’idolo è vicino e lontano (lo facciamo noi, ma ci è distante); Dio invece è lontano e vicino. A partire dalla santità che Dio rivela la sua vicinanza. Che Dio si voglia rivelare non è dato per scontato. Dall’alto della sua dimora Dio si abbassa per occuparsi dell’uomo. La stessa fede cristiana parla del Figlio che lascia la casa del Padre per poi ritornarvi dopo la sua Pasqua. Trascendenza e prossimità, separazione e comunione: poli fondamentali della rivelazione biblica. Il Dio della Bibbia ha piacere a stare con gli uomini. Prima dell’Esodo non si parla di un abitare di Dio con gli uomini. Ma nel racconto della Genesi si narra che Dio amava passeggiare con l’uomo al fresco della sera nel giardino in cui l’aveva posto. L’uomo è contento, vive una vita buona all’interno del recinto posto da Dio. Con la trasgressione del peccato, l’essere umano si sottrae alla presenza di Dio, cedendo alla tentazione di pensare a Dio come ad un concorrente dell’uomo, ad un suo avversario, all’ostacolo del suo desiderio di felicità e pienezza. “Adamo, dove sei?”: è l’uomo che spesso manca all’appuntamento con Dio. In quell’immagine viene narrato il primo esilio della presenza di Dio. Dio voleva da sempre abitare presso gli uomini, ma sottraendosi alla presenza di Dio gli umani accolgono il sospetto che la presenza di Dio sia di disturbo alla libertà umana.
  1. Contro una tale immagine la Bibbia parla di un Dio trascendente che vuole farsi compagno di viaggio dell’uomo, non suo ostacolo. Enoc e Noè “camminavano con Dio”. Nella storia dei patriarchi la Bibbia registra numerosi incontri con Dio. Ad esempio, l’incontro con Abramo alle querce di Mamre, o la lotta notturna di Giacobbe allo Jabbok. O a Betel dove lo stesso Giacobbe sogna una scala dalla quale salivano e scendevano angeli, a dire la volontà di Dio di lasciare i suoi cieli per abitare con gli uomini. Ma è con l’Esodo che Dio si mostra compagno di cammino degli uomini desideroso di abitare con loro. Attraverso Mosè, egli rivela la sua volontà di rendere Israele suo popolo in mezzo al quale abitare, in vista del compimento di una promessa più ampia che riguarda tutte le genti, come anticipato ad Abramo. Dio incontra Mosè sull’Horeb (Es 3) e questo viene considerato dalla tradizione di Israele la prima manifestazione della shekinà. Il midrash riconosce che il “dimorare” di Dio nel roveto è il modo per condividere la situazione sofferente del popolo di Israele. In quel contesto Dio consegna a Mosè il suo Nome: “Io sarò chi sarò”. Un invito a superare le parole, a utilizzare le parole come un segno che indica la sua presenza senza definirla. Così come Dio non può essere rappresentato con un’immagine, altrettanto non può essere rappresentato verbalmente da un nome descrittivo. Dio consegna se stesso, ma la sua identità andrà scoperta nel concreto della vita e della storia di grazia che vivrà col suo popolo. La storia dell’Esodo altro non sarà che lo sviluppo, la spiegazione del nome rivelato al roveto ardente.
  1. Sempre nel racconto dell’Esodo appare il segno della nube che indica – come per il nome – una presenza misteriosa, nascosta. La colonna di nube presuppone che Dio che sta in cielo scenda sulla terra. Es 13: la colonna di nube e la colonna di fuoco. Una funzione di guida, di apripista. Oppure una funzione di protezione che si frappone tra Israele e gli egiziani. Così come fece l’angelo del Signore. In altri testi la nube è definita “gloria di Dio”, intesa dai rabbini come shekinà. Es 24,15 parla della nube, della gloria e il verbo shakan, dimorare, mettere una tenda. E così, grazie alla mediazione di Mosè, si realizza l’incontro tra Dio ed Israele nell’Alleanza, svolta decisiva nei rapporti tra Dio e il popolo e dunque nella forma della sua presenza. Con l’Alleanza è come se il cielo e la terra si toccano a dire che Israele dovrà tenere insieme santità e alterità di Dio, condiscendenza e vicinanza. Con l’esperienza del Sinai è come se Dio sente il bisogno di rendere più stabile la sua presenza in mezzo al popolo. Certo, sarà sempre itinerante, ma ora la sua presenza non sarà più ai margini (in testa o in coda), ma in mezzo ad esso. Ecco il senso della “tenda dell’incontro, dimora, tabernacolo”. Ma si tratterà di una “grazia a caro prezzo”, senza automatismi, molto gradualmente.
  1. Es 25: istruzioni sulla costruzione di questa Dimora che sarà inaugurata alla fine, al cap. 40. Solo Dio può dare indicazioni per la costruzione della Dimora. In mezzo a queste disposizioni si colloca l’episodio del vitello d’oro con la rottura dell’Alleanza che racconta della difficoltà di Israele e di tutti i credenti a sostenere il peso di una presenza divina che ha i caratteri di una elusività che nessuna immagine può rappresentare e fissare. Mosè è assente perché sul monte, con Dio. Ma Israele, invece di esercitarsi nella faticosa obbedienza della fede, regredisce verso l’idolatria, esigendo da Aronne un dio da vedere e toccare, quasi dimenticando e rinnegando l’intero cammino percorso sin qui dietro la guida del Signore. Aronne, acquiescente, con l’oro che doveva servire per la Dimora del Signore fabbrica un vitello presentato al popolo con l’acclamazione: “ecco il tuo dio, Israele, che ti ha fatto uscire dall’Egitto”. Il peccato di Israele, più che quello di prostituirsi a dei stranieri sembra quello di farsi un’immagine fissa del proprio dio, per averlo sempre davanti a sé e sentirsi rassicurato in un deserto spaventoso. Si tratta di un problema di fede: si cercano segni rassicuranti e si rifiuta un dio discreto, impalpabile, che chiama ad una adesione nella fede e non nella visione. Il vitello d’oro è un modo sbagliato di risolvere un problema reale che fa parte di ogni esperienza di fede. Una volta che dio ci ha fatti uscire dalla terra di schiavitù, come sentirlo presente accanto a noi anche nel lungo cammino della quotidianità dando continuità all’esperienza esaltante degli inizi? Fare di dio un idolo fissando per sempre la sua immagine sembra essere la soluzione più facile ma ingannevole. Se il vitello d’oro fu l’esperienza più umiliante, in realtà ogni episodio di mormorazione in cui il popolo si ribella a Mosè per la mancanza di acqua e di cibo, è presente lo stesso sospetto circa la vicinanza reale di Dio. A Massa e Meriba il popolo si chiede “il Signore è in mezzo a noi o no?” (Es 17,7). Grido che in tanti possiamo essere portati ad innalzare nelle ore di smarrimento. La Scrittura vede in tutto questo un tentare Dio.
  1. Grazie alla mediazione di Mosè l’infedeltà di Israele è perdonata e superata. Prima del rinnovamento dell’Alleanza Mosè mette in campo una soluzione transitoria in attesa della definitiva costruzione della Dimora. Pianta una tenda mobile, ad una certa distanza dall’accampamento, segno della distanza che si è creata tra Dio e il popolo. Detta “tenda dell’incontro” ma non è la tenda per il popolo, bensì solo per Mosè: solo lui può incontrare Dio e parlargli faccia a faccia, come un uomo parla con il suo amico. È la Parola che rende questo luogo non solo Dimora di Dio ma anche tenda dell’incontro. Se Israele sarà tentato di dimenticare questo legame tra la Dimora e la Parola, i profeti saranno pronti a ricordarglielo. Quando finalmente Mosè termina di costruire la Dimora, la nube la ricopre (Es 40,35), come in un Sinai portatile. Ecco l’obiettivo ultimo di tutta l’epopea dell’Esodo: preparare una Dimora a Dio perché abiti in mezzo al suo popolo, nonostante il peccato del popolo. Una presenza che esige una fedeltà alla legge dell’Alleanza (Lev 26): una presenza per grazia, ma sempre in divenire.
  1. Una volta che Israele è entrato nella terra, al tempo del re Davide l’Arca – che prima era collocata sotto la tenda – viene insediata stabilmente a Gerusalemme. Il progetto di Davide di edificare un Tempio per il Signore sembra incontrare un rifiuto attraverso le parole del profeta Natan, espressione di una lettura di un filone della spiritualità di Israele. 2Sam 7. L’evocazione del cammino nel deserto suona come un monito al popolo tentato di cadere nell’arroganza del benessere e della ricchezza. Si teme di cadere nella tentazione dei popoli pagani che “imprigionavano” le loro divinità nello splendore dei loro templi. Certo, sarà Salomone a costruire il tempio, ma l’impressione è che si tratta di una concessione fatta ad un popolo incapace di accettare la presenza di un Dio itinerante. Quando l’Arca sarà introdotta nel tempio si ripete la scena di Es 40: la nube riempie il tempio e i sacerdoti dovranno lasciare quel luogo. Un luogo “relativo”: 1Re 8,26 dice la consapevolezza del carattere parziale, transeunte del ruolo del tempio nel garantire la presenza del Signore. La Dimora di Dio è trascendente ed indisponibile all’uomo. Nessuna magia, nessun automatismo. La dimora di Dio in mezzo ad Israele sarà garantita a condizione che il popolo cammini sulle sue orme, contro ogni concezione fissista, assicurata una volta per tutte. La stessa tradizione deuteronomista più che sulla stabilità e fissità insiste sulla unicità del tempio che favorì il recupero della dimensione itinerante del popolo di Israele che, almeno per le grandi feste, doveva convergere a Gerusalemme. I salmi stessi evidenziano come l’unicità del tempio portò ad una visione più interiorizzata della presenza di Dio che sopravvisse anche quando l’istituzione materiale venne meno.
  1. La predicazione profetica e la messa in guardia contro i “rischi” del tempio. Prima, durante e dopo l’esilio. Mentre denunciano ogni ingiustizia sociale, si scagliano contro l’inganno e l’ipocrisia di un culto formalistico e criticano una concezione securizzante del tempio, come se fosse una garanzia della presenza di Dio in mezzo al popolo. Ger 7,4-7; 11-15. Il Dio dei profeti è un Dio vivente che sconfina rispetto al tentativo umano di imbrigliarlo. Non si nega il valore del tempio e della Dimora storica. Ma questa non potrà mai condizionare la sua eccedenza, nessun tempio di pietra potrà mai limitare la sua presenza. Con Ez 8-11 la presenza stessa di Dio abbandona il tempio per recarsi coi deportati a Babilonia. Per Dio l’importante non è rimanere nel tempio, ma stare là dove vive il popolo, come a diventare tempio lui stesso, fino a quando il popolo, purificato dalle sue infedeltà, potrà tornare a Gerusalemme, il tempio sarà ricostruito e la città santa si chiamerà “il Signore è là” Ez 48.25. 
  1. I profeti da una parte predicano il carattere umano del tempio, dall’altra essi annunciano che con il tempio o senza tempio il Signore dimorerà col suo popolo. Si perfezione l’idea della presenza di Dio che non viola la sua trascendenza, al di là di ogni manipolazione umana. Si apre un capitolo sulla dimora di Dio che raggiungerà la sua pienezza al termine dell’Apocalisse. Riattivando il carattere dinamico della presenza di Dio tra gli uomini, i profeti relativizzano il ruolo del tempio nel garantire la presenza di Dio tra il popolo. Tale predicazione acquisterà attualità specie dopo il 70 d.C., alla distruzione definitiva del tempio. La riflessione rabbinica sulla shekinà elaborerà il lutto di quella perdita e parlerà della dimora di Dio tra il suo popolo al di là delle realizzazioni materiali e caduche. Comunicando il messaggio fondamentale per consegnarlo ad Israele anche nei momenti più bui della sua storia.
  1. Nel Nuovo Testamento comprendiamo la pregnanza del linguaggio di Giovanni, specie nel suo prologo. Eskènosen fa eco sia a livello fonico che di significato al verbo shakan, il dimorare di Dio in mezzo al popolo. La carne umana di Gesù è ormai il luogo della presenza di Dio. L’incarnazione diventa il compiersi del desiderio di Dio di entrare in comunione con tutti gli esseri umani, compiendo l’esperienza di fede di Israele che invocava la discesa di Dio in mezzo al suo popolo. “Se tu squarciassi i cieli …”. L’uomo Gesù è la dimostrazione che la tenerezza di Dio per gli uomini è troppo grande per restare chiusa in sé e deve scendere a livello stesso degli uomini. Nicola Cabàsilas – facendo tesoro di tutta la tradizione patristica – scrive: “Come per gli uomini, quando la tenerezza diventa troppo grande per i cuori che la contengono, fa uscire da se stessi coloro che amano, allo stesso modo l’amore per gli uomini ha svuotato Dio. Non rimane infatti nel proprio spazio chiamando a sé lo schiavo che ha amato, ma scende lui stesso a cercarlo. Il ricco viene nella dimora del povero e accostandosi a lui dichiara lui stesso la sua passione e, respinto non si ritira, oltraggiato non si irrita, scacciato via si siede alla porta e fa di tutto per mostrare che ama, sopporta le sofferenze che gli vengono inflitte e muore”.
  1. In Gesù, figlio di Maria, Dio stesso scende, si fa presenza, visitando personalmente il suo popolo e si fa Dio-con-noi. In lui la gloria abita la nostra terra, egli è il luogo della gloria di Dio e coloro che l’accolgono nella fede possono contemplarla. Una gloria che per Giovanni si manifesta al momento della croce, quando Gesù svela il senso pieno della vita, consegnandola nelle mani degli uomini. Isacco di Ninive afferma: “La shekinà che proviene dall’Arca, ha posto misteriosamente la sua dimora sulla croce”. 
  1. Luca – che nel suo vangelo dell’infanzia è molto ricco di riferimenti al tema della Dimora e dell’Arca – applica a Gesù il linguaggio della shekinà con un rimando implicito alla nube dell’Esodo: nella pienezza dei tempi la potenza dell’altissimo stende la sua ombra su Maria. Luca usa lo stesso verbo che l’Esodo usava per parlare della nube che riempiva la tenda dell’incontro (Es 40,35). In Gesù giunge a compimento il cammino fatto da Israele nell’Esodo per edificare la vera tenda di Dio tra gli uomini. Nel grembo di Maria fecondato dallo Spirito, il Signore viene ad incontrare l’umanità come sposo e salvatore. 
  1. Gesù è riconosciuto nel NT come il nuovo tempio attraverso il quale Dio vuole dimorare in mezzo a noi. Non solo nel tempo della sua vita terrena, ma soprattutto dopo la resurrezione. “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. E quando fu risuscitato dai morti i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla Parola detta da Gesù”. La vicinanza della distruzione del tempio di Gerusalemme alla morte di Gesù ha consentito ai redattori dei vangeli un facile abbinamento: il nuovo e definitivo tempio non fatto da mani d’uomo è il corpo di Gesù risorto. Il NT confessa che in virtù della sua risurrezione il Signore Gesù, nato come uomo da Maria, è adesso in mezzo a noi e con noi per sempre. “Io sono con voi fino alla fine dei tempi” scrive Matteo alla fine del suo vangelo, ponendo una inclusione con la profezia di Isaia sull’Emmanuele, Dio-con-noi, citata all’inizio dello stesso vangelo, dopo le parole dell’angelo che annuncia a Giuseppe la nascita di Gesù da Maria per opera dello Spirito Santo. A dire che per Matteo non c’è rottura tra Israele e Chiesa nel processo di adempimento delle promesse messianiche. “Dio con noi” dice l’identità e la vocazione profonda del bambino nato da Maria: portare la comunione di Dio tra gli uomini. Con l’Emmanuele la presenza del Dio dell’Alleanza giunge a compimento a favore di un popolo chiamato ad abbracciare l’intera umanità.
  1. Il fatto che all’inizio e alla fine di Matteo si parli di “Emmanuele” significa che l’intera vita di Gesù è iscritta sotto l’idea del Dio-con-noi. Con la risurrezione di Gesù la sua presenza si estende ovunque e si prolunga fino alla fine del mondo, così come si manifestò quando era con i suoi amici. Gesù è potenzialmente con tutti coloro che accoglieranno la sua Parola, seppure in altro modo. Un altro detto di Gesù riportato da Matteo in 18,20 “se due o più sarete riuniti nel mio nome …” fa riecheggiare il tema della shekinà. Sorprende la somiglianza con detti rabbinici che affermano: “se due siedono insieme e vi sono tra loro le parole della Torah, la shekinà è in mezzo a loro”. “Quando dieci siedono per studiare la Torah, la shekinà è in mezzo a loro perché è detto Dio sta nell’assemblea di Dio”. Sembra proprio che Matteo, l’ebreo, alluda volutamente al tema della shekinà. Quando scrive ormai il tempio è distrutto e le sue parole, come i detti rabbinici, sembrano assicurare che la divina shekinà resta presente in altro modo. “Dove due o tre …”: Gesù risorto, alla destra del Padre, è la shekinà. Certo, ad una condizione: essere riuniti nel suo nome. Non qualsiasi incontro tra i discepoli gode automaticamente della sua presenza salvifica: occorre sposare la sua causa, aderire alle sue esigenze. Si tratta di obbedire – secondo il contesto del vangelo di Matteo in cui è collocato questo detto – alla volontà di riconciliazione e di fraternità: solo a questa condizione la comunità gode della sua vicinanza ed è costituita nella sua dimora. Dunque, non basta essere uniti a Cristo in virtù di un legame sacramentale che ci costituisce come tempio di Dio. Occorre che quella presenza di Cristo, quella dimora che siamo per lui, siano continuamente riattivate nell’obbedienza ai suoi comandamenti. Parola e Spirito Santo sono i pegni della sua presenza, dopo la sua ascensione al cielo. La stessa eucarestia si realizza in forza della sua Parola e del suo Spirito. Parola e Spirito adempiono alla promessa del suo rimanere in noi attraverso l’eucaristia. 
  1. Ma anche qui la presenza promessa e donata va letta in termini dinamici: non è garantita in modo automatico e chiede di essere accolta con docile e instancabile obbedienza. Sia la Parola che lo Spirito sono realtà vive e inesauribili. Va accolta la Parola e va invocato il suo Spirito. “Se uno mi ama osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e porremo la nostra dimora in lui” Gv 14,23. Ma questo non si dà una volta sola. Con lo stesso atteggiamento di Maria bisogna ascoltare la Parola perché dimori nelle nostre vite. “Rimanete in me ed io in voi…” Gv 15,7. Rimanere, dimorare è condizione da guadagnare, un cammino da compiere. Come nella prima alleanza, la dimora di Dio non è una garanzia assoluta. In Luca c’è una parola severa di Gesù per chi immaginava che l’appartenere alla chiesa sarebbe stato la garanzia di un legame stabile don lui, come una garanzia di salvezza. “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza …”. Si può vivere tutta la vita nel perimetro di una pratica religiosa, ma senza essere riconosciuti dal Signore. Ciò che ci ammette alla sua presenza ora e sempre non è un’adesione formale ad una istituzione, non è un qualche legame acquisito una volta per tutte, ma solo l’umile e fedele obbedienza alla sua volontà, magari vissuta inconsapevolmente semplicemente obbedendo e restando fedeli con piena integrità alla realtà dell’umanità in cui abitiamo e all’appello che ci viene dal volto del fratello (Mt 25). Ricordiamo l’episodio in cui viene cercato dalla madre e dai parenti (Mc 3,32). Si può stare attorno a Gesù solo ascoltando la sua Parola, non in virtù di un legame di sangue o di altra natura.
  1. Per conoscere ed incontrare veramente Gesù, per dimorare in lui non è sufficiente considerarlo uno dei nostri. Sarà poi necessario accettare di farsi stranieri, uscire dal nostro orizzonte per non ridurre Dio a nostra misura. Il Signore è sempre oltre le nostre case, le nostre dimore, le nostre effimere comprensioni di lui. Per questo, ogni credente, per restare tale quale deve essere, un cercatore di Dio, deve accettare di rinascere, di farsi straniero rispetto alle proprie situazioni, deponendo ogni pretesa. Accettare di essere ospiti, ospitati in casa propria, senza alcun diritto acquisito. Solo così si entra, invitati, alla casa del Signore, alla sua presenza. Come i Magi che lasciarono la loro patria, si fecero discepoli della Parola rivelata loro a Gerusalemme per arrivare a prostrarsi in una semplice casa dove si trovava un bambino avvolto in fasce. Riconoscendo quella casa come il tempio della presenza di Dio. 
  1. Il Natale sia l’occasione per ritrovare lo spazio della presenza di Dio nella nostra vita. Che ne abbiamo fatto, che cosa ne facciamo ogni giorno per vivere e sperare. In che misura pretendiamo di fissarla secondo i nostri schemi sempre a rischio di idolatria. Il cammino fatto mostra insieme il desiderio di Dio di comunicarsi all’uomo e il tentativo continuo dell’uomo di adulterare tale presenza dentro le proprie anguste vedute, paure, ambizioni. Tentazione che è anche dei discepoli di Gesù. Basti ricordare il “è bello per noi stare qui: facciamo tre tende…” sul monte della trasfigurazione: c’era la nube, la voce e Pietro voleva aggiungere la tenda. Ma la presenza si dissolve ogni volta che si tenta di identificarla con una collocazione spaziale, temporale o anche culturale. Nonostante le nostre meschinità il Dio-con-noi non perde il suo desiderio di stare con noi. La sua decisione è senza pentimento. Il Dio santo che rivela il suo cuore misericordioso nella carne di Gesù, mentre continua a sottrarsi e a mettere in guardia da ogni pretesa di accaparramento idolatrico (cfr Gott mit uns), è sempre disponibile a farsi presente dove trova un cuore umile e povero capace di fare spazio alla sua presenza discreta e senza pretese. Già nel profeta Isaia leggiamo: “Il cielo è il mio trono … su chi volgerò il mio sguardo? Sull’umile e sul povero, su chi trema alla mai Parola” (66,1-2). Dicono i rabbini che Dio che pure è presente ed è dappertutto, abita solo là dove lo si lascia entrare. “Io sto alla porta e busso …” Apo 3,20. Se il vangelo della natività del Signore ci rivela che Dio si lascia incontrare dal piccolo e dal povero nascendo lontano dai templi e dai palazzi, allora siamo provocati a riconoscerlo in quelle condizioni di povertà e a far nostro lo stile che gli è proprio. Se l’umiltà è lo stile di Dio in questo mondo, allora è l’umiltà il luogo e la forma migliore per riconoscere ed incontrare il Dio che ha posto la sua tenda tra gli uomini. E il modo per testimoniare la sua presenza fedele in mezzo agli uomini. Umiltà nel vivere e nello stare al mondo.
  1. Dunque, l’umiltà può diventare la tenda dell’incontro tra Dio e l’uomo. Se facciamo nostro questo stile, non dobbiamo più fuggire ciò che siamo per incontrare Dio, non dobbiamo più fuggire o negare le nostre povertà, fragilità, limiti, gioie e desideri. Dopo averli riconosciuti non saranno più realtà assolute, ma spazio di accoglienza e di incontro. Il risorto che ci precede sempre, in fondo vuole essere cercato, riconosciuto ed incontrato là dove siamo, accolto in casa nostra come in quella di Zaccheo, nei luoghi e nei cammini della nostra vita quotidiana fatta di non effetti speciali e drammatici. Arriveremo così a riconoscere il grande nel piccolo, lo straordinario nell’ordinario, il tutto nel frammento. Tutta la nostra vita può diventare spazio della sua presenza, luogo santo di adorazione in Spirito e Verità. Questo è il desiderio più profondo del Dio cristiano. In attesa che nell’ultimo giorno scenda la tenda di Dio e copra tutto con la sua misericordia.
  1. Tenda di Dio (Angelo Casati)

    Tenda di Dio
    sua calda dimora
    è la carne vivente
    dell’uomo, sua immagine.

    Asino e bue
    siamo tutti, Signore,
    muso dietro muso,
    a fissare il mistero

    Mistero di ruvida
    e povera paglia
    e giorni senza luce,
    droghe senza speranza.

    Essere, mio Dio,
    asino e bue
    col fiato sospeso
    a godere il mistero.

    Noi siamo, Signore,
    il tuo vivente presepe,
    siamo la paglia
    su cui coricarti ancora.

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