II Domenica dopo la Dedicazione

La partecipazione delle genti alla salvezza

  1. Bello il titolo di questa domenica: “la partecipazione delle genti alla salvezza”. Un titolo che si traduce nelle letture che abbiamo ascoltato e che stanno a spiegare per quale motivo domenica scorsa abbiamo parlato di missioni, missionarietà, cioè dell’incarico che Gesù ha dato ai suoi amici di arrivare fino ai confini della terra e della storia per far sapere non solo che esiste un Dio, ma che questo Dio ha una peculiarità: non sa fare festa da solo. Avrebbe potuto restarsene nella sua splendida solitudine, nel suo Paradiso, e invece ha deciso di imbarcarsi in questa operazione – la creazione del mondo e dell’uomo – che già i saggi dell’AT descrivevano come l’invito ad uno straordinario banchetto di nozze cui questo Dio vuole chiamare ogni uomo, ogni donna, senza esclusioni. Se siamo missionari è perché abbiamo conosciuto un Dio per il quale non esistono uomini e donne privilegiati e uomini e donne da scartare. Un Dio che nel momento in cui ci ha creati ci ha regalato un destino inimmaginabile. È un Padre che non può non amare tutti i suoi figli e non può tollerare che i suoi figli non riescano a conoscerlo e ad amarlo. Perché è diverso vivere sapendo che c’è un padre che ci accompagna e che ci aspetta al termine di questa avventura che è la vita!
  1. E allora andiamo alle letture che meglio esprimono quanto stiamo dicendo. Il brano di Isaia e la pagina del Vangelo usano immagini, parabole, similitudini, … che toccano le corde più sensibili del cuore dell’uomo: festa, cibo, convivialità, … Un Dio che va amato e cercato, non perché minaccia castighi, ma perché ci invita ad un banchetto, ad una festa che non potrà mai tollerare di celebrare da solo. E questo è ciò che possiamo chiamare “evangelo”, buona notizia, fondamento di una vita vissuta con pienezza e gioia.
  1. Malgrado questo, le tinte con cui tutto ciò viene raccontato sono anche tinte fosche. La parabola parla di invitati che non solo rifiutano l’invito per dedicarsi ai propri affari, ma che addirittura maltrattano i servi che avevano portato l’invito per conto del re. E leggendo la parabola nell’insieme del Vangelo di Matteo è chiaro che la contrapposizione è tra i primi destinatari della missione di Gesù, i figli dell’antico Israele che lo rifiutarono, così come dopo la sua Pasqua rifiutarono la predicazione degli apostoli. Chi invece lo accolse furono pubblicani, prostitute, gente di malaffare per i benpensanti farisei. Così come furono i popoli pagani ad aprirsi inaspettatamente alla chiesa dei primi secoli. Quel popolo di Israele, scelto da Dio come trampolino per rivolgersi a tutti i popoli della terra, aveva smarrito la sua vocazione originaria. Non solo: aveva sequestrato Dio, gelosamente e con arroganza, ignorando la destinazione universale della salvezza. Aveva smarrito quell’anelito, quel desiderio, quell’insonne tormento affinchè ogni uomo possa conoscere il Dio che lo aspetta alla fine dei tempi sul suo monte per un banchetto strepitoso e per asciugare ogni lacrima dal suo volto. Capite: sapere che c’è un Dio così, credere in lui, significherà far di tutto perchè tutti lo possano scoprire. Sapere che c’è un Dio così significherà condividere qualcosa del suo cuore universale, combattendo ogni chiusura, ogni ripiegamento egoista: l’importante è che stia bene io, … l’importante è che vada io in paradiso … E come ai capi dell’antico Israele, potrebbe capitare anche a noi se ci dovessimo chiudere a questa visione universale della salvezza e non dovessimo riconoscere in ogni uomo-donna un fratello-sorella in diritto di godere dei beni della terra come ne godiamo noi. Ed essere aperti a questa visone universale significa tradurre tutto sul piano economico e finanziario. Se tutte le genti possono partecipare alla salvezza, allora tutte le genti hanno diritto a desiderare una vita bella e dignitosa come ciascuno di noi.
  1. C’è però un ultimo passaggio da affrontare: quello rappresentato dalla vicenda dell’invitato sorpreso senza abito nuziale. A dire che se la salvezza è offerta a tutti e che non è tollerabile tra i cristiani alcuna discriminazione, chiusura, ripiegamento orgoglioso e arrogante sulla propria presunta identità, … d’altra parte questa salvezza non è a costo zero. È offerta a tutti, senza che ce lo meritiamo. Ma se appena l’accogliamo qualcosa della nostra vita deve cambiare.
    Accogliere l’invito e cambiare significa indossare quella veste rappresentata dall’impegno ad assumere i sentimenti che furono in Gesù stesso, da quelle opere di bontà che ci rendono sempre più simili a quel Gesù di cui ci nutriamo ad ogni eucaristia per diventare sempre più come lui.
    È importante questo ultimo passaggio dal momento che parlare di destinazione universale della salvezza non potrà mai significare che non ci sarà un giudizio, che ogni comportamento potrà andare bene, che il Signore nostro giudice sia di bocca buona e di manica larga. 
    Si può correre il rischio di essere chiamati, ma di non finire tra gli eletti: non per chissà quale cattiveria vendicativa da parte di Dio, o per una perversa pre-destinazione, ma solo per un nostro auto escluderci rinnegando con i fatti il Signore Gesù. L’essere entrati nella sala non esaurisce il compito, anzi lo amplifica.
  1. La parabola è così un appello, un richiamo, perché l’ora è decisiva: tutto è pronto. In tutto il racconto è presente un’aria di urgenza. Di fronte all’appello del Vangelo non è permesso essere distratti e non ci sono cose più importanti da fare. Il giudizio che ha colpito Israele può colpire anche i cristiani. La veste nuziale non sarà mai facoltativa per entrare e stare nella festa di Dio.

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