ANCORA IN VIAGGIO … verso il Signore che ci corre incontro per umanizzare la vita sulla terra
- Il vangelo di questa domenica ci parla di una crisi di fede. Ma non di un personaggio qualsiasi. Il protagonista di questa crisi è Giovanni il Battista, il precursore, il più grande tra i nati di donna, a detta di Gesù stesso. Eppure, anche un personaggio di quel livello ha fatto la sua bella fatica a credere. A credere che Dio fosse diverso da quello che lui si immaginava, che il Dio al quale aveva consegnato tutta la vita, per il quale stava per dare la vita dal momento che da lì a poco la stupidità del re Erode gli sarebbe costata la testa.
- Giovanni non era una mezza calzetta. Giovanni era finito in carcere perchè non aveva avuto paura di denunciare l’immoralità del re Erode che viveva con la cognata, moglie del fratello Filippo. Giovanni non era un cortigiano sempre pronto a difendere il principe, a perdonargli ogni scappatella. Giovanni sentiva la responsabilità di dover preparare la strada al Messia che stava per venire e per questo predicava il battesimo della conversione e denunciava ogni immoralità, ogni ingiustizia, fosse anche quella del sovrano. Per questo era finito in galera. Ma anche dalla galera evidentemente sentiva raccontare di quel Gesù di Nazaret, cugino per parte di madre, che un giorno aveva indicato come l’agnello di Dio. E proprio il suo modo di fare il Messia, il suo modo di predicare, il suo modo di parlare di Dio lo sconcertava. Non credo che Giovanni avesse paura di morire: quello che lo tormentava era un insistente dubbio: era lui l’Atteso o bisognava aspettarne un altro?
- Ebbene, come si può spiegare questo dubbio di fede in un uomo tutto d’un pezzo, in un profeta come lui? La risposta la troviamo – mi pare – nella sua incapacità di riconoscere che in realtà, con la venuta di Gesù cominciavano a compiersi le antiche profezie, in particolare quella di Isaia ascoltata nella prima lettura. Profezie che Gesù richiama nella risposta che dà agli inviati di Giovanni: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo”.
- Profezie attuate che non ci possono lasciare con inattivi, a guardare dal balcone… Riconoscere che quelle profezie hanno cominciato a realizzarsi significa rendersi disponibili a prolungare quella che fu l’azione di Gesù nel prenderci cura delle infinite forme di sofferenza e di povertà. Come ha fatto lui. Il Dio che aveva formulato quelle profezie e che in Gesù aveva iniziato ad attuarle è un Dio che non ci lascia con le mani in mano, ma che si aspetta una reale collaborazione. Un Dio che apre un sentiero certamente scomodo, ma sul quale ci invita a camminare. Un Dio che viene incontro all’uomo per aiutare l’uomo a rendere questa terra un po’ più umana, a far sì che questo mondo assomigli un po’ di più a quello che ci verrà donato al termine della storia.
- La liturgia di questa terza domenica di Avvento però ci parla di un altro personaggio che – diversamente da Giovanni battista – riesce a riconoscere il realizzarsi delle promesse di Dio. Nella lettera ai Romani Paolo – ebreo fino al midollo delle ossa – riconosce che certo, il suo amato popolo aveva rifiutato Gesù come Messia, ma che paradossalmente questo aveva aperto la porta a tutte le genti, affinchè Dio fosse conosciuto e amato da ogni uomo, ogni donna, a qualsiasi popolo appartenesse. Paolo parla della “ostinazione di una parte di Israele” che era per lui motivo di enorme sofferenza, ma che aveva concesso a tutte le genti di entrare in alleanza con Dio. Nel cuore di Paolo non verrà mai meno il sogno che Israele potesse arrivare a riconoscere Gesù di Nazaret come il Messia.
Insieme si preoccuperà di sgombrare il campo dal rischio che i pagani – Paolo scrive ai cristiani di Roma che non provenivano dall’ebraismo – che nel frattempo aderivano alla fede in Gesù finissero per cadere nella superbia e nella presunzione. Nella fede non c’è nessun merito, nessun diritto da accampare, nessuna pretesa. E dunque non sarà giustificabile alcun atteggiamento di rivalsa, se non addirittura di disprezzo nei confronti del popolo di Israele, che non smette di essere amato da Dio.
- La questione ha una sua serietà: per avere smarrito questa convinzione e questo insegnamento di Paolo si è permesso al germe dell’antisemitismo di attecchire e poi portare frutti nefasti. Se nei due millenni di cristianesimo il mondo ebraico ha dovuto subire infinite sofferenze fino a quella che chiamiamo la shoà, è anche a causa della presunzione cristiana di cui parla Paolo nella seconda lettura di oggi, dell’idea che Dio avrebbe sostituito Israele con la Chiesa.
Dal Concilio Vaticano II la Chiesa ha preso le distanze in modo inequivocabile da ogni disprezzo nei confronti dell’ebraismo. Ma i frutti avvelenati ancora si sviluppano e prendono la forma di deliranti gruppi neo-nazisti, piuttosto che dei veleni che circolano in rete, piuttosto che delle minacce alla senatrice a vita Liliana Segre, l’unica persona di 92 anni ad avere bisogno di una scorta, nei confronti della quale ritengo doveroso manifestare la solidarietà di ogni cristiano e il desiderio di poterla considerare propria concittadina.
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