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Ultima Domenica dopo l’Epifania
- Quella che chiamiamo erroneamente la parabola del “figliol prodigo”, è certamente uno dei capolavori dell’evangelista Luca. La fa da padrona in questa che la liturgia ambrosiana chiama la domenica del perdono, ultima dopo l’epifania, prima che inizi il tempo di quaresima.
Erroneamente, dicevo. Già, perché così facendo abbiamo continuato a mettere l’accento sulle malefatte del figlio scapestrato, sulla sua ingratitudine, sulla sua dissolutezza. Lo abbiamo chiamato “prodigo” per dire scialacquone, esagerato, sprecone. E così facendo non abbiamo messo gli occhi abbastanza sul vero protagonista della parabola che è invece quell’uomo che aveva due figli, e che forse nessuno dei due era mai riuscito a conoscere davvero. La dobbiamo ribattezzare come la parabola del padre sconosciuto, oppure del padre prodigo (lui sì), esagerato, sprecone, nel senso che vedremo…
- La prima cosa da sottolineare è così che la parabola ci dice che entrambi i figli sono cattivi, non avevano capito nulla del loro padre. Non c’è un figlio cattivo e uno bravo. Sono entrambi cattivi. Entrambi parlano di noi, in loro ci possiamo riconoscere.
Il primo, quello che se ne va di casa, arriva ad una richiesta assurda: “dammi la parte di eredità che mi spetta” come a dire “per me, papà, tu sei morto…”, e da lì un sogno di autonomia e libertà che frana miseramente (i porci e la perdita della identità religiosa; le carrube rubate ai maiali e la perdita della dignità umana).
Ma anche il secondo, quello presunto bravo, tutto casa e chiesa, che non perde l’occasione per rimproverare al padre la sua generosità nei confronti del figlio ribelle e scapestrato. Il vangelo dice che “si indignò e non voleva entrare” al punto che il padre è costretto ad uscire di casa, così come era uscito di casa per correre incontro al più giovane che tornava.
In fondo, la radice delle disgrazie degli uomini sta nel non aver ancora capito che razza di Dio è Dio e così diventa impossibile costruire una vera fraternità. I due figli della parabola ci dicono che, insomma, la radice ultima del peccato sta nel sospetto che Dio Padre non sia capace di soddisfare la sete di felicità che abita in ciascuno di noi. È il sospetto che se viviamo come Dio comanda non ci realizzeremo mai come uomini e come donne davvero felici, ma saremo degli eterni insoddisfatti, sognatori immancabilmente illusi e delusi.
- Così la parabola vuole insegnarci che solo il padre è buono e su di lui deve andare il nostro sguardo. Un padre che la parabola ci presenta con alcune caratteristiche inquietanti:
a: un padre che di fronte alla pretesa assurda del figlio minore non dice parola, non batte ciglio e asseconda inspiegabilmente quella richiesta; un padre capace di infinita pazienza, che accetta il rischio di educare, senza pretendere chissà quali risultati
b: un padre che tratta bene entrambi i figli cattivi; tratta bene il più piccolo, gli corre incontro, non lo lascia neppure parlare, scusarsi, non si chiede quali siano i sentimenti del figlio, ma che cosa può fare per lui: mostrargli che la sua dignità di figlio non è venuta meno (vestito, anello, calzari); ma tratta bene anche il grande che non vuole entrare alla festa: ci ragiona, prova a fargli capire che quello che è tornato è suo “fratello” e non solo “figlio” del padre, che per un padre un figlio non può ridursi alla somma delle sue prestazioni
c: un padre che accetta il rischio di una festa incompleta (il grande entrerà alla festa?), dunque un padre che è lui il prodigo, l’esagerato, lo sprecone di amore e di pazienza
- Dunque, un padre diverso da come noi esercitiamo la paternità, da come viviamo le nostre relazioni educative, e quindi che ci mette in discussione. Ma un padre che dice come fa Dio e dunque un padre al quale guardare (con gli occhi e con le mani…), perchè solo un Dio così mi farà venire la voglia di cambiare. L’ultima domenica dopo l’Epifania, detta “del perdono”, alle soglie ormai della Quaresima pone la premessa al cammino di conversione che la Chiesa sta per intraprendere. Solo confidando nella disponibilità al perdono da parte di Dio l’uomo può decidersi a compiere opere di penitenza, di cambiamento. Solo conoscendo con precisione il volto di Dio potremo costruire relazioni fraterne autentiche. Dove la fraternità si basa su di un fatto decisivo: i fratelli non ce li possiamo scegliere, ce li troviamo. A dire che dobbiamo combattere contro la tentazione di considerare la fraternità come relazione che riguarda alcune persone e non altre, distinguendo tra persone che si meritano questo appellativo e altre no. Il padre della parabola che parla del Padre che sta nei cieli ci proibisce questa selezione e ci obbliga ad uno sguardo di fraternità con tutto ciò che questo comporta.
- Dicevamo che alla parabola manca una scena, quella in cui il figlio maggiore decide o meno di entrare a far festa, a riconoscersi o meno fratello e figlio. L’evangelista chiude la parabola con una sospensione, quasi per dirci che sta a noi fare l’ultima mossa: o quella di rimanere fuori dalla festa, rendendo incompleta la gioia del padre, oppure quella di liberarci dai nostri risentimenti, rinunciare al giudizio sul fratello e rallegrarsi – come il padre – del suo ravvedimento.
Questo è il senso di tutta la vita cristiana: riconoscersi come figli di uno stesso padre e renderlo felice con l’impegno ad una vita di fraternità.
Diceva un vecchio biblista che a Dio noi non possiamo dare nulla se non una cosa: la gioia di chiedergli perdono.
Sia questo l’impegno delle settimane che ci attendono a partire da domenica prossima.
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