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- Ancora in viaggio … verso Gerusalemme. Gesù incontra e ci fa incontrare la figura di Abramo, l’uomo a partire dal quale – possiamo dire così – si è cominciato a credere nel Dio giusto. Tema quanto mai decisivo in questo periodo di quaresima che ha per obiettivo quello di farci riscoprire il valore e il significato della nostra fede, questione seria visto che nel vangelo si afferma paradossalmente che lo scontro che fece rischiare la pelle a Gesù fu con “quei Giudei che gli avevano creduto”. Uomini della sua stessa tradizione religiosa, che si riferivano agli stessi padri, da Abramo a Mosè. Questo a ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, che parlare di fede significa parlare di qualcosa di mai definito una volta per tutte dato che l’oggetto della fede è un Dio sfuggente, un Dio che “passa” come nell’episodio dell’Esodo, un Dio che non si può vedere, dominare, controllare (diversamente dagli idoli, che sono nostra fattura, pupazzi nelle nostre mani, fonte di illusoria sicurezza).
- Stante questa divina sfuggevolezza, la liturgia di questa domenica ci indica un metodo sicuro per non rischiare di sbagliare Dio: quello di riferirci a quei “padri nella fede” che secondo le Scritture hanno saputo rapportarsi in modo corretto al Dio giusto e che ci possono insegnare che cosa significhi credere non in un idolo, ma nel Dio vero. Padri nella fede che senza pretendere di dirci chi è questo Dio, però riescono ad evocarcelo, a farcelo intuire in modo corretto. E sono due le figure che ci vengono in aiuto: quella di Mosè e quella di Abramo.
- Il racconto dell’Esodo ci dice della seconda volta che Mosè ritornava sulla vetta del monte Sinai. Ci risaliva a seguito dell’infedeltà del popolo, del vitello d’oro. Ora saliva con queste nuove tavole e forse si chiedeva se le cose sarebbero andate meglio, se il popolo sarebbe riuscito a vivere una fedeltà più grande. In fondo il popolo restava quello di sempre e dunque come ci si poteva immaginare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso?
E così il vero elemento di novità poteva venire solo dall’altro partner, dall’altro polo dell’alleanza, da quel Dio che Mosè doveva continuare a scrutare e conoscere e che quel giorno gli si rivelò con quattro nomi forse nuovi per Mosè. Ricordate che la prima volta che si incontrarono Mosè gli chiese il nome e Dio gli rispose in quel modo enigmatico: “Io sono colui che sono”, come a dire, fìdati, vienimi dietro, impara a conoscermi ogni giorno di più, non pretendere mai di sapere chi sono, ciò che penso.
Quella volta, quella seconda volta sulla montagna, Dio gli dice i suoi quattro nomi.
– Il primo, “misericordioso”, aveva a che fare con il grembo, con le viscere di una madre;
– il secondo, “pietoso”, aveva a che fare con uno pronto a far grazia;
– il terzo, “lento all’ira”, come uno che sa sopportare;
– il quarto nome parla di uno che è ricco, un Dio che è ricco “di tenerezza e di fedeltà”.
Ecco perchè Mosè poteva sperare in una nuova alleanza: non tanto per la promessa di fedeltà del suo popolo, quanto per i “nomi” di questo Dio. Mosè stesso restò contagiato dalla grande pietà di Dio e diventa lui stesso intercessore: “Che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice…”. Con un Dio così può rinascere l’alleanza e Mosè ardisce rivolgersi al Signore che “passa” chiedendogli di “camminare” in mezzo al suo popolo di “zucconi”, come fosse già in attesa del giorno in cui Dio, nel suo Figlio, sarebbe venuto a piantare la sua tenda tra noi (Gv 1,14).
- La pagina del vangelo vede campeggiare la figura di un altro padre nella fede, Abramo, il credente per eccellenza, l’uomo che si è messo di fronte a Dio senza pretendere di tenerlo in mano, di controllarlo, di farlo diventare un idolo. L’uomo che era partito fidandosi solo delle promesse di Dio, disposto anche a non vederne il compimento. L’uomo attraverso il quale la benedizione di Dio sarebbe passata a tutte le genti, non solo ad un popolo, ad una religione, ad una razza. Nel racconto di Giovanni invece sono protagonisti negativi questi “Giudei che avevano creduto a Gesù”, ma con i quali ingaggia un’aspra disputa che va a scontrarsi con una perversione della religione, una religione che rende schiavi, immobili, che ripete nomi senza contenuto: si nomina Dio, ci si appella ai padri, si sbandierano tradizioni e appartenenze, ma dietro c’è solo il vuoto. Una religione in cui ci si dichiara discendenti di Abramo, figli di Dio, osservanti della Legge, … ma dentro a quella religione nessun sangue, nessuna vita, nessuna passione per il bene di tutti.
- La finale del vangelo è inaudita ed inquietante. “Prima che Abramo fosse, Io Sono” con cui Gesù dichiara che il nome che Dio aveva rivelato a Mosè lo riguardava, lui era quel “Io Sono” che era il nome stesso di Dio. I Giudei chiusero la discussione facendo appello alle pietre. E Gesù si nasconde ed esce dal tempio: andandosene egli proclama che la presenza di Dio, la sua “gloria” abbandona il tempio. Per ritrovarla bisognerà seguire Gesù sulla sua strada, quella che porta al Calvario. Le pietre, e la croce, allora lo raggiungeranno, ma lui sfuggirà loro, quando risorgerà.
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