Giovedì Santo

  1. Vorrei iniziare questa riflessione rifacendomi alle parole di don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta, morto di cancro più di venti anni fa. Dei tanti suoi scritti mi piace ricordare quello in cui don Tonino parlava di una “Chiesa del grembiule che lascia o tralascia i segni del potere per scegliere il potere dei segni“, una Chiesa serva della felicità dell’uomo. A don Tonino piaceva raccontare che questa del Giovedì Santo è la sera in cui inizia la storia di quella chiesa, al termine dei quaranta giorni di quaresima cominciata con il gesto dell’imposizione delle ceneri e che si conclude con quello della lavanda dei piedi. Due gesti che abbracciano la quaresima, ma che dicono di tutta la nostra vita di fede che ci domanda di partire dalla nostra testa per arrivare ai piedi degli altri. Una vita che potremmo riassumere in due parole: pentimento e servizio. Due parole, due prediche affidate alla cenere e all’acqua. Prediche di quelle che non si dimenticano, che ti seducono, che ti affascinano, perché espresse con i simboli, che parlano un “linguaggio a lunga conservazione”.
    Ricordate quando 40 giorni fà sentimmo quelle parole “Convertiti e credi al Vangelo”. La cenere scendeva leggerissima, ma le parole, quelle rimanevano indelebili. Quella cenere ricavata bruciando gli ulivi benedetti della Domenica delle Palme a ricordarci il modo in cui Gesù è re, il nostro impegno ad accoglierlo, la sua mitezza. Straordinario programma di conversione.
  1. Fino a stasera, al gesto che ci ha fatto riascoltare l’acqua nel catino. È la predica più antica che ognuno di noi ricordi. Una predica, quella del Giovedì Santo, costruita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia che stasera hanno riguardato 12 giovani che stanno preparandosi alla GMG di Lisbona, il prossimo agosto. L’offertorio di un piede, il levarsi di una brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.
    Una predica strana. Perché a pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici giovani, era un uomo, un prete che si inginocchia solo davanti alle ostie consacrate.
    Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il cammino del nostro ritorno a casa. Cenere e acqua. Ingredienti primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi.
  1. A questa conversione vuole condurci la celebrazione di questa sera nella quale si intrecciano come due linee: quella dell’amore di un Dio che si dona e quella del tradimento dell’uomo che rifiuta. Pensate ai tre grandi protagonisti negativi di questa celebrazione:
    – a Giona, profeta scelto da Dio, ma incomprensibilmente disobbediente, incapace di mettersi in sintonia con un Dio amante dell’uomo, anche del nemico (rappresentato dagli abitanti di Ninive), perché anche quell’uomo è stato creato da lui
    – a Giuda, che altrettanto incomprensibilmente tradisce e vende il Maestro pur avendo partecipato a quella cena in cui Gesù lascia nel pane e nel vino il segno anticipato della sua morte in croce
    – a Pietro, che malgrado l’esibizione della sua fedeltà, benché fosse stato scelto per una missione grandiosa, nega di conoscere Gesù davanti ai servi del sommo sacerdote.
  1. Una conversione che non sarà mai la conseguenza della minaccia di chissà quale punizione, ma solo il frutto di un autentico innamoramento. Già, perché come molti sanno, non si cambia perché minacciati, ma solo perchè innamorati. Come forse molti sanno, sto per celebrare i 40 anni di ordinazione presbiterale avvenuta l’11 giugno 1983. 
    E così mi piace rileggere il senso dell’essere prete come racchiuso tra questi due elementi simbolici, la cenere e il catino, che parlano di un invito al cambiamento e di un servizio per la gioia dei credenti. Siamo diventati preti per raccontare l’amore di un Dio imprevedibile ed inimmaginabile, preoccupato di rendere la vita dei suoi figli più umana e bella, desideroso di averli tutti con sé per una festa senza fine. Invitando ad un cammino di purificazione dai tanti idoli e dalle tante illusioni che alla fine ci rendono tristi e scontenti, arrabbiati e malmostosi. Siamo diventati preti per provare a dimostrare – anzitutto col nostro stile di vita – che vale la pena di fidarsi del nostro Dio. 
    Continuate a pregare per noi sacerdoti, perché riusciamo, con le nostre parole e le nostre opere, a raccontarvi di un Dio affidabile che merita tutta la nostra fiducia.

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