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- Dopo l’ascensione viene il tempo di Pentecoste. Dopo l’autonomia, l’offerta dello strumento per esercitarla in modo giusto. Dopo l’assenza di Gesù, dopo la responsabilità offerta alla Chiesa, il dono capace di garantire una compagnia (un altro paraclito, un altro che ti sta accanto) che attraversasse i luoghi e i tempi: quello Spirito scaturito dalla croce e che non ha mai smesso di essere effuso, donato.
- Se un “pallino” Gesù aveva in testa pensando ai discepoli e a come avrebbero dovuto sostenere la sua assenza, questo riguardava il tema dell’unità. Anche in sua presenza non avevano perso l’occasione per mostrare le loro divisioni. Per questo aveva pregato perchè fossero “una cosa sola, affinchè il mondo potesse credere”. C’era di mezzo la qualità della testimonianza, l’efficacia dell’evangelizzazione. Sappiamo bene come la storia della Chiesa è stata invece storia di divisione; certo, anche storia di gesti straordinari, di opere meravigliose accompagnate da lacerazioni dolorosissime (v. il conflitto tra la chiesa ortodossa ucraina e quella russa). Gesù non aveva chiesto chissà quali risultati, quale diffusione della Chiesa nel mondo. Aveva chiesto l’unità. E sulla mancanza di unità si è infranta la forza evangelizzatrice della Chiesa. Ieri come oggi.
- La Pentecoste fu un dono per contrastare l’inarrestabile processo diabolico di frantumazione all’interno della Chiesa e nel mondo a partire da Babele. Ma attenzione: unità non significa uniformità. Pensiamo a quel giorno a Gerusalemme, a tutte le persone presenti nella città santa, un oceano di persone non solo diverse, ma anche di persone divise tra loro, se non addirittura in contrasto tra loro. Ebbene, che cosa accadde a Gerusalemme?
Accadde che pur permanendo le diversità, tutte le divisioni scomparvero.
Questo è il grande obiettivo dello Spirito effuso nella Chiesa: non certo quello di renderci tutti uguali, di livellare sensibilità, gusti, capacità. Piuttosto quello di armonizzarli, di valorizzare le specificità di ciascuno – come scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi – “per il bene comune”. È l’utilità comune il criterio per capire se certi doni vengono dallo Spirito o dal Maligno: che siano esercitati a favore di tutta la Chiesa e non della propria appartenenza, del proprio gruppo, della propria associazione, del proprio movimento, della propria parrocchia. Ma questo vale anche a livello civile: la Pentecoste va contro il sovranismo del “duma nunc” e contro la globalizzazione che impone un pensiero unico, un unico stile di vita.
Dunque, Dio ci scampi da una Chiesa incapace di riconoscere e valorizzare la storia e le tradizioni di ogni popolo che la costituisce. Pensate solo alla Chiesa pre-conciliare che imponeva la lingua latina ad ogni credente, non importa a quale cultura appartenesse, e alla straordinaria intuizione del Concilio di riconoscere la legittimità di pregare e di leggere la Bibbia nella lingua di ogni popolo!
- Dunque ciò che a Pentecoste scomparvero non furono le diversità, ma le divisioni. E scrive l’autore degli Atti che la folla rimase stupita e fuori di sè per la meraviglia: “come mai ciascuno di noi sente parlare la propria lingua nativa?”. Non escludiamo che quel giorno lo Spirito abbia abilitato i discepoli ad esprimersi nelle lingue degli stranieri presenti a Gerusalemme. Ma insieme intuiamo che nel raccontare di Gesù e della loro esperienza con lui, abbiano usato la lingua universale della carità, quella lingua che ancora oggi tutti possono capire. Quella che fu la lingua parlata da Gesù. Una lingua semplice, fatta di poche parole e tanti gesti, che è la vera “lingua nativa” dell’umanità. Quella che tutti capiscono da che mondo è mondo.
La questione tocca la vita della Chiesa di sempre, una Chiesa chiamata a portare il Vangelo a tutti i popoli, non con lo stile dei colonizzatori, ma con lo stile di Gesù che si è spogliato della sua divinità per farsi come noi.
- Per questo siamo chiamati a imparare da capo la lingua della carità come strumento di evangelizzazione in un tempo multiculturale e multireligioso. Una carità con cui riusciamo a dire i contenuti del Vangelo anche quando ci troviamo di fronte a uomini e donne a cui non ci è possibile fare direttamente il nome di Gesù.
Abbiamo sempre sconfitto l’invito che da diverse parti ci veniva rivolto per una carità anzitutto ai “nostri”, magari in nome della difesa di una non meglio precisata identità cristiana. Le nostre porte sono sempre state aperte a chiunque fosse portatore di un bisogno. Semmai dobbiamo chiederci se questo nostro operare è sempre stato accompagnato dalla consapevolezza del potenziale missionario del nostro agire.
- Rimaniamo pure diversi, perchè la diversità è una ricchezza. Ma lasciandoci guidare dallo Spirito di Gesù apprendiamo, un po’ alla volta, la “lingua nativa” dell’umanità, la lingua che tutti capiscono: la lingua della bontà.
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