III Domenica dopo Pentecoste

Credo che quello che abbiamo ascoltato nella pagina appena letta sia il versetto più bello del Vangelo: “Dio ha tanto ...

  1. Credo che quello che abbiamo ascoltato nella pagina appena letta sia il versetto più bello del Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Se la prima lettura ci racconta di una storia drammatica che sfocerà nella grande disobbedienza del peccato originale e la pagina di Paolo descrive gli effetti di una pandemia che nessun vaccino è mai riuscito ad arrestare, quel versetto tratto dal dialogo notturno di Gesù con Nicodemo ci informa di due cose straordinarie. 
    La prima è che l’amore che ha spinto Dio a creare l’uomo non è venuto meno, malgrado il male e il peccato. Il piano di Dio non fu un piano fallimentare a motivo della disobbedienza dell’uomo, dal momento che il piano prevedeva quel “dono” straordinario, il suo Figlio, l’unigenito, dato sia nel senso di inviato nella storia a sporcarsi i piedi con la polvere della terra; sia nel senso di consegnato nelle mani degli uomini fino alla morte. L’invio del Figlio non fu una specie di rattoppo per riparare lo strappo del peccato, ma parte fondamentale di quella che chiamiamo la storia della salvezza.
    La seconda informazione riguarda lo scopo di quel dono, di quel Figlio “dato”: la possibilità di un vaccino contro il virus del male che la chiesa chiama “peccato originale” e che altro non è che una radicale sfiducia nei confronti di Dio. Un Dio che il serpente cercherà di presentare come geloso delle sue prerogative, inoculando all’uomo di sempre questo drammatico sospetto: c’è qualcosa che Dio vuole tenerci segreta, qualcosa che vuole tenere solo per sé…
  1. È importante allora leggere il Vangelo di oggi alla luce delle letture che lo precedono. Dio non ama il mondo, l’uomo, perché questi se lo merita, ma perché sa che solo amandolo incondizionatamente potrà guarirlo dal suo male. Paolo stesso sottolinea che “molto più” è la volontà di bene rispetto all’alta marea del peccato. Se Dio avesse ragionato da uomo, a fronte della disobbedienza del peccato originale forse avrebbe smesso di giocare con noi, avrebbe fatto come facciamo quando il computer si blocca: spegni e riaccendi. E invece no. Non solo non ha smesso di giocare con noi, ma ha accompagnato l’uomo lungo la storia (che chiamiamo storia della salvezza) per aiutarci a scoprire …
  1. l’immensità del suo dono (“potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino”), 
  2. il desiderio di Dio di avere un partner, non un suddito (“lo coltivasse e lo custodisse”)
  3. il senso della proibizione sull’albero della conoscenza del bene e del male che è renderci conto che siamo limitati e non siamo padroni né delle cose né delle persone; è non pretendere di decidere la distinzione tra bene e male, di confondere i diritti con i desideri, perchè quando questo accade l’uomo muore, cioè finisce per vivere una vita disumana, si rovina la vita e la rovina agli altri che ha accanto.
  1. Fino al dono supremo, il suo Figlio unigenito: dunque non qualcosa (la natura, il mondo, …), ma se stesso. Un dono che possiamo far riecheggiare nella nostra vita ogni volta che porremo gesti di amore, di tenerezza, di dedizione, di amicizia, di cura premurosa. Ed ogni volta che questo accadrà anche noi saremo rivelazione di questo Dio che ha tanto amato il mondo con un gesto di amore incondizionato che si concretizza nel segno della croce, segno di un Dio messo tra gli scellerati e i malfattori. Un ricordo da tenere vivo tutte le volte che saremo tentati di giudizi senza speranza. E allora riascoltiamo quanto scriveva p. Christian de Chergè, uno dei sette monaci uccisi in Algeria nel 1996, intuendo già la sua fine: “Finalmente potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam, come lui li vede, totalmente illuminati dalla Gloria di Cristo, dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con la differenza”.
  1. Questa lotta contro la presunzione di essere noi a definire la differenza tra bene e male deve passare dall’accettazione di chi è da me diverso, dal riconoscimento del mio limite e dal desiderio di arricchirmi del bene presente in ogni uomo e donna. Una lotta da realizzare in quella esperienza di coabitazione delle differenze che è il matrimonio, la coppia, la famiglia, che oggi celebriamo nella sua stabilità, fedeltà e durata. Oggi celebriamo la virtù della fedeltà, come virtù del continuare, come forza che vince il tempo, il mutare, il finire. Nel rapporto uomo-donna questo significa che dopo il sì iniziale viene il momento in cui ci si dice “non ti riconosco più”; quando questo accade significa che è giunto il tempo della fedeltà all’interno del mutamento, della perseveranza intesa come continuo adeguamento alla realtà dell’altro; solo questa difficilissima virtù è capace di aumentare la profondità dell’amore. Solo l’uomo che tenta di vivere nella fedeltà merita la fiducia altrui. R. Garaudy: “la gioia di un uomo consiste nell’essere rimasti fedeli, quando ci avviciniamo ai 60 anni, al sogno dei nostri 20 anni”; questo è il mio augurio per tutti voi, per tutti noi, anche se i 60 anni li abbiamo superati da un pezzo!

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