- Dopo le figure di Abramo e Mosè, la liturgia di questa domenica apre le danze con la figura di Giosuè, il successore di Mosè, la guida che finalmente condurrà Israele in quella terra per la quale Mosè aveva dato tutta la sua vita. Nella lettura si parla del momento immediatamente successivo a quell’ingresso, attraverso le acque del Giordano: dei dodici uomini da scegliere – uno per ogni tribù – e delle dodici pietre da prendere dal fiume e da collocare a perenne memoria nel luogo del loro primo pernottamento in terra di libertà.
Non ci sono dubbi circa il forte senso di identità che il popolo di Israele ha nei secoli coltivato e che lo ha salvato dalle continue dispersioni e persecuzioni cui è stato sottoposto. Un senso di identità che lo faceva percepire come “popolo eletto”, preferito da Dio rispetto a tutti gli altri popoli della terra.
Ma non è improbabile che qualcuno talvolta osasse mettere in discussione questa “esclusività”. Ricordando Abramo e la sua vocazione (“in te si diranno benedette tutte le genti della terra”), veniva il sospetto che forse c’era qualcosa da rivedere nel modo di pensarsi come popolo di Dio. Insomma, non è improbabile che quel tale di cui parla il Vangelo di oggi fosse animato da buone intenzioni quando chiese a Gesù: “sono pochi quelli che si salvano?”. Se Dio – come ricorda Paolo nella lettera ai Romani – è il Dio dei Giudei e di tutte le altre genti, possibile che solo un piccolissimo gruppo sia destinato alla salvezza? E tutti gli altri, che possibilità avranno, a quali condizioni potranno entrare? - È da notare che Gesù quel giorno non rispose a quella domanda. A Gesù forse non interessavano molto le indagini demoscopiche che per certi versi de-responsabilizzano, non provocano il singolo, la sua libertà, le sue scelte. Ecco perchè non considera la domanda “sono tanti o sono pochi?” ma cambia il soggetto: dalla terza persona, che riguarda gli altri, alla seconda persona, che riguarda noi. «Sforzatevi, sforzatevi voi, di entrare. In questione siete voi. Siete implicati voi. C’è di mezzo la vostra pelle, le vostre scelte, il vostro modo di pensare e di vivere. La salvezza non è una questione di gruppi, di appartenenze, di nomi collocati in un qualche registro. Per la salvezza non esiste alcun automatismo, alcuna tessera. Per la salvezza anzitutto bisogna evitare di “presumere”, di avere la presunzione di esser già a posto».
- La questione evidentemente stava a cuore a Gesù, perchè intuiva che lo stesso difetto da attribuire all’antico Israele in realtà anche i cristiani avrebbero corso il rischio di viverlo in prima persona. Ecco allora il suo mettere in guardia non tanto l’antico popolo di Israele per essersi chiuso nella logica delle dodici tribù, dimenticando in un certo senso il resto del mondo, quanto coloro che avrebbero fatto parte del nuovo popolo di Dio, della Chiesa. Dunque anche noi, tentati di pensare “siamo dei suoi, apparteniamo a gruppo di quelli giusti, di quelli bravi, possiamo stare tranquilli”. Tentati di dividere anche noi l’umanità tra il gruppo degli eletti e il gruppo dei dannati. Tentati di immaginare che la salvezza possa dipendere anzitutto da una questione di “pratica” religiosa, di appartenenza a qualche gruppo, a qualche setta dove le cose si fanno più seriamente: “abbiamo mangiato e bevuto alla tua presenza”, che cos’è se non un rimando all’eucaristia? “Tu hai insegnato nelle nostre piazze” che cos’è se non un riferimento alla mania di voler mostrare che siamo in tanti, che la Chiesa conta, che abbiamo potenza?
Ma non potrebbe essere un richiamo a come si vive in molte comunità cristiane dove ci si accontenta del proprio gruppo senza preoccuparsi di conoscere quello che fanno gli altri? Superbi e arroccati sulle nostre belle abitudini, finiamo per pensare che solo noi siamo capaci, solo di noi il parroco si può fidare. E così finiamo per essere totalmente distratti e disinteressati per quelli che non vengono in chiesa o che – pur venendo in chiesa – ci guardiamo bene dal far venire loro la voglia di aggregarsi a noi. E se per caso qualcuno decide di aggregarsi, quanto gliela facciamo pesare… - A questi presunti criteri di qualità Gesù risponde con parole durissime: “Non so di dove siete, allontanatevi da me, voi operatori di ingiustizia”. E poi quella profezia che forse farà venire l’orticaria a chi vive con permanente fastidio il rapporto con chi arriva da altri mondi ed è portatore di altre tradizioni religiose: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio”. E mi viene in mente come ogni tanto qualcuno continui a tirare in ballo l’identità cristiana ma sempre nella logica della separazione, di chi si mette tra i “primi”. Peccato che forse non ha ancora letto questa pagina del Vangelo che assicura che in quel grande pranzo che ci attende nel regno di Dio “vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”.
E che la cosa non debba capitare a noi!
19 luglio – Settima dopo Pentecoste
(Gs 4,1-9 – Rm 3,29-31 – Lc 13,22-30)
E LA PORTA FU CHIUSA
Magari ci è capitato, in questi mesi di accesso contingentato a messa, di trovare la porta ormai chiusa, la chiesa piena. Possibile? Sembrava così “sportivo” andare in chiesa, dove e quando e come mi piaceva! Gesù oggi parla del pericolo di trovar chiusa un’altra porta, ben più decisiva, quella del paradiso, della vita eterna; e al nostro bussare, sentirsi rispondere: “Voi, non so di dove siete”. Forse ci siamo illusi che il Regno di Dio è come un weekend estivo, un optional piacevole. E’ detto: “Vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”. Si parla di una porta stretta.
PRIMI CHE SARANNO ULTIMI. Primi erano quei Giudei che si credevano privilegiati (sicuri) perché appartenenti al popolo eletto e rifiutavano di aderire a Gesù. Primi si sentono quei cristiani che sono “del giro”, ma non sempre coerenti con la vita, con una morale soggettiva, quella del “buon senso” comune (“Fan tutti cosi”), litigiosi tra gruppi, volontari nel fare tanto, ma xenofobi con gli estranei.. : “Allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia”. L’ingiustizia più profonda però è la presunzione di salvarsi con le proprie opere, di sentirsi giusti come il fariseo che disprezza il pubblicano, o che si lamenta sempre come il figlio maggiore della parabola del figliol prodigo. La salvezza è dono di Dio, ma richiede collaborazione e sforzo: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. “Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano” (Mt 7,13). Non è né popolare né facile fare il cristiano serio. Quanto tremenda è quella parola: “E voi cacciati fuori”!
ULTIMI CHE SONO PRIMI. “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Ecco la domanda da fare e da farsi: C’è posto anche per me? Tutti possono accedere al Regno di Dio, la salvezza è per tutti: “Forse Dio è soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti” (Epist.). La condizione (la porta) è la fede: “Unico è Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede” (Epist.). Quale fede? Quella vissuta da Gesù. Dice la Lettera agli Ebrei: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (12,1). Non ci sono eroismi personali da fare. C’è da abbandonarsi a Dio con piena fiducia: “Padre, non la mia ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,42). Da questa obbedienza verrà anche la sapienza, cioè la comprensione pacificante del disegno di Dio. Gesù l’ha detto: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).
“Verranno da oriente e da occidente … e siederanno a mensa nel regno di Dio”. C’è già chi prende il nostro posto, se siamo tra quelli che si annoiano del Dono ricevuto fin da bambino e mai preso troppo sul serio.
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